Tu chiamala, se vuoi, Israele. Ma intanto, legge (americana) alla mano, quella Israele non è. È Gerusalemme. Basta. Hai voglia a sostenere il contrario. Per carità: un fatto piccolo. Che rischia, però, di creare più di un semplice incidente con lo Stato ebraico. Perché a seconda della sentenza, potrebbe cambiare il corso dei negoziati (a proposito: ha ancora senso chiamarli così?) mediorientali.
E allora. Succede che negli Usa un piccolo dilemma anagrafico scali i gradini legali e approdi direttamente alla Corte Suprema. Qui i giudici dovranno giudicare se la città di Gerusalemme, già tormentata di suo, debba essere considerata sul passaporto Israele o no.
Il ricorso legale è stato presentato dal cittadino americano Menachem Zivotofsky e famiglia. La parte avversa è nientemeno il Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton. In mezzo, come scritto, una disputa insidiosa per l’amministrazione Obama. Chiedono i Zivotosky, in sintesi, di far scrivere sul passaporto americano di Menachem «nato in Israele».
La questione non è così semplice. Menachem Zivotofsky è venuto alla luce in un ospedale di Gerusalemme nel 2002, subito dopo la decisione del Congresso di collocare la città in Israele. Ma l’amministrazione Bush aveva fatto cancellare il provvedimento stabilendo che i fatti riguardanti la politica estera non rientravano tra le competenze del Congresso.
Così, quando i genitori di Menachem – Ari e Naomi – hanno chiesto all’ambasciata americana di Tel Aviv il passaporto per il figlio, l’organo consolare rifiuta di scrivere «nato in Israele». Gli Usa, così come altri Stati, non riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. È da qui, dal 2003, che inizia la trafila giudiziaria approdata poi alla Corte Suprema. Dove hanno già iniziato a scontrarsi non solo filo-israeliani e filo-palestinesi americani, ma anche chi vorrebbe ridurre i poteri presidenziali in fatto di politica estera.
[Il caso ha un nome semplice (e si può scaricare in versione integrale qui): «Zivotofsky v. Clinton, 10-699»]