Di questi tempi le ragioni per invidiare la Germania abbondano. Il leader dei liberali tedeschi, Guido Westerwelle, non se l’è cavata bene recentemente nelle elezioni dei Land. Gli è stato perciò fatto sapere che doveva lasciare il posto a qualcun altro, meglio di lui in grado di risollevare le sorti elettorali del partito. Il buon Westerwelle, pur restando ministro degli esteri, si è dimesso da vice cancelliere e da numero uno del partito. I liberali tedeschi lo hanno sostituito in questi incarichi con il trentottenne Philipp Roesler, di origine vietnamita, adottato in tenera età da una coppia tedesca.
Nel marzo scorso un altro liberale in forte ascesa, il barone Zu Guttenberg, era stato costretto a lasciare il suo posto di Ministro dell’Economia dello Stato guida dell’Unione Europea; si era infatti scoperto che aveva copiato ampi brani della sua tesi di dottorato.
Un italiano che legga tali notizie viene preso da una irrefrenabile germanofilia. Previene già dentro di sé, furioso al solo sentirle, le becere obiezioni di chi ricorda che la Germania ha sprofondato se stessa e la civile Europa nella Shoah. Mettiamo pure da parte il fatto che la Germania ha fatto i conti con se stessa mille volte più di noi, che ci siamo auto assolti al grido “Italiani brava gente”; forse che infischiarsene delle regole sarebbe un buon viatico verso un mondo più civile? O che non ci sarebbe scelta fra la Shoah e la melma immobile e corrotta che ci contorna?
Due sono le ragioni di questa germanofilia; cominciamo dalla prima. Il nostro ministro addetto alla scuola e all’università, Maria Stella Gelmini, si presenta come baldanzosa e fiera sostenitrice della meritocrazia al fianco del suo profeta, Roger Abravanel. Mary Star ha infatti sostenuto gli esami di abilitazione in Calabria, terra dove notoriamente non si guarda in faccia a nessuno; là tutti gli aspiranti avvocati del mondo convergono a singolar tenzone per mostrare chi meglio di ogni altro padroneggia leggi e giurisprudenza. Quando qualche bieco nordista l’ha criticata per questa scelta poco meritocratica- e per di più non compatibile col suo attuale ruolo- Mary Star ha precisato che lei aveva bisogno di lavorare. A differenza, ci vuol far credere, della massa degli altri giovani, tutti fortunati ricchi di famiglia, che evidentemente possono permettersi di sudare su codici e pandette per farsi esaminare con calma sul loro territorio, tanto paga papà.
L’altro tema che induce allo sconforto è la mobilità altrui, comparata con l’immobilità nostra. Westerwelle ha “vinto” le politiche, nel senso che ha portato il suo partito a risultati ottimi, ma gli è bastato qualche scivolone nelle elezioni dei Land per esser mandato a casa. Non manca chi dice che gli americani poco lo amassero, e che sia questa la ragione della sua cacciata, ma conoscendo Angela Merkel questa spiegazione pare poco credibile. È più probabile che sia stato il partito a trovare in sé le forze per imporre il cambio, e trovare il sostituto in un giovane neanche quarantenne, con gli occhi a mandorla.
Roba da fantascienza per noi. In Germania i partiti sono soggetti a rigide norme di funzionamento che ne assicurano la reale aderenza ai principi della democrazia, per esempio nella modalità di elezione dei vertici. È così che i capi se ne sono dovuti andare (Zu Guttenberg) o hanno visto molto ridotta la loro influenza (Westerwelle).
Ciò non accade in Italia, dove invece i partiti non sono “normati”, eppure hanno il potere di scegliere loro gli eletti, in luogo degli elettori. Cosa che, fra parentesi, induce alcuni a nutrire dubbi sulla costituzionalità del “Porcellum”. Nessuna sconfitta, comunque, può sbullonare dalla cadrega- o dal dominio della scena pur senza cadrega- i nostri eminenti strateghi, onusti di annunciate sconfitte.
Di Prodi- che pur avendo battuto per due volte il Cavaliere, se ne vanno in silente e magari sdegnata dignità- ne abbiamo avuto, purtroppo, solo uno.