Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media (edito da Feltrinelli), è un libro utile per comprendere gli scenari e le dinamiche dell’industria culturale e dei media oggi. Ed è anche una lettura divertente, nonostante la mole (440 pp).
L’autore, Frédéric Martel, è sociologo di formazione, ricercatore, ma anche produttore di radio e tv, nonché ideatore di Inaglobal, un’osservatorio online sull’industrie creative. Non è casuale il fatto che sia uno studioso francese ad occuparsi dell’“imperialismo culturale” americano nell’industria dei media. Da anni il governo francese ha adottato una politica culturale orientata alla promozione della lingua francese e di tutto ciò che è francesità. Si veda per esempio la speciale agenzia creata da Sarkozy, per lo sviluppo della creatività francese guidata da Marin Karmitz, personaggio singolare e vera incarnazione del cinema d’autore (regista, produttore, distributore e fondatore di una rete di sale a Parigi).
Per la sua inchiesta narrativa, Martel ha intervistato professionisti (circa 1200) di rilievo del mercato globale in 30 paesi. Prendendo in mano il libro, una domanda si pone prima ancora di aprire la copertina, cosa è il “mainstream”? Una definizione efficace potrebbe essere la seguente: tutti quei film, format tv, produzioni musicali, e libri di intrattenimento (non solo, ma soprattutto) che plasmano il gusto e concorrono nella formazione dell’opinione (estetica e non).
Mainstream, racconta della competizione mondiale (definita “guerra”) da Martel per accaparrarsi l’audience sempre più globalizzata. Competizione in cui gli Stati Uniti la fanno ancora da padroni perché l’Europa fatica non poco nel mercato del “cultural export”. Basti pensare che negli ultimi dieci anni le vendite mondiali di prodotti della “content industry” americana sono cresciute del 10% mentre l’export europeo è sceso del 8%. Un’ulteriore dimostrazione di questa dominazione americana è che i prodotti europei di maggior successo tendono a proporre temi e format in linea con quelli statunitensi. Mimetismo che vale anche per i maggiori attori industriali europei: Bertelsmann, il gruppo Tedesco, si è riposizionato acquisendo uno dei più importanti editori americani, Random House, mentre il gruppo francese Vivendi vanta come etichetta principale la newyorkese Universal Music. Una posizione di dominio, quella statunitense ,che ha come corollario la quasi universalità della lingua inglese. Altri fattori suggeriti da Martel sono:
- la dimensione multiculturale degli Stati Uniti (ciò aiuta l’ideazione di prodotti facilmente esportabili);
- le imprese del settore possono operare in un contesto relativamente poco regolamentato;
- gli attori dell’industria culturale statunitense operano in maniera indipendente ma interconnessa, inoltre vi è cooperazione tra il settore pubblico e quello privato;
- il macro fenomeno dei “social media” è nato e prosperato negli Stati Uniti, e da lì esportato.
Altro argomento affrontato da Martel è il “soft power” che la cultura popolare e i media possono rappresentare. Quindi, oltre alla supremazia poltico-militare, gli Stati Uniti vantano il dominio sull’”altra faccia del potere” (così definito da Joseph NYE, autore di Soft Power: The Means to Success in World Politics), quello di persuadere ed attrarre altri tramite risorse intangibili quali cultura e valori.
L’America vince ancora dunque nel mercato del mainstream e forse continuerà a farlo anche nonostante gli sconquassi della distribuzione digitale, dei mercati di nicchia, della dis-intermediazione e della produzione iperlocale. Però, se è pur vero che Topolino, Lady Gaga e Mad Men hanno lo stesso paese di origine di Google, Facebook e Twitter è anche vero che Internet è un pluriverso, dove nuove cellule potranno essere generate, diffondersi, connettersi.
Il super potere della cultura americana non sarà imbattibile per sempre. E già si intravedono segnali di scenari futuri possibili. Dal Brasile all’Indonesia, il paesaggio culturale sta mutando, ed altri paesi hanno cominciato ad esportare i prodotti delle loro “content industry”. Ciò anche se al momento non ci sono ancora esempi di film blockbuster mondiali e spesso i prodotti dei paesi emergenti tendono ad utilizzare gli stessi stilemi di Hollywood (valori familiari, situazioni sociali rassicuranti, strutture narrative lineari ecc.) e la logica del mainstream. Un esempio è il film Slumdog Millionaire, vincitore di otto Academy Awards l’anno scorso. Ambientato in India e trasposizione di un romanzo scritto da un autore indiano, non è però un autentico film indiano (ed infatti la produzione è franco-britannico-americana).
Il tema su cui insiste Mainstream, però, non è se tutto ciò sia male o bene per le culture nazionali. O se è più creativo ed esteticamente valido il cinema di Nanni Moretti o i cartoni della Pixar, ma piuttosto cosa potrebbero fare i mercati locali, tra cui quello italiano, per arrivare a creare prodotti esportabili.