Chi può dimenticare i magnifici ritratti di Georgia O’Keeffe realizzati da Alfred Stieglitz? Pose anticonformiste, punti di vista inaspettati, un’attenzione lenticolare per la realtà oggettiva ma assunta come simbolo di un sentimento nascosto, intimo, impronunciabile. Immagini che, nell’immediato, produssero un fortissimo scossone nel panorama artistico statunitense allora molto provinciale, e che poi, sul lungo periodo, dimostrarono di aver rivoluzionato il linguaggio stesso della fotografia. Ancora oggi siamo soliti definirle “ritratti”, ma a ben guardare il loro cuore pulsante non si trova sul “viso” della splendida modella ma sulle sue mani. Sì, non c’è ombra di dubbio, sono le mani il vero volto di Georgia. Plastiche ed elastiche, nervose ed elegantemente sensuose, affusolate ma anche nerborute, le dita androgine della musa di Stieglitz richiamano l’intrigante sensualità del suo corpo, amorosamente sondato dall’obiettivo della macchina.
Tuttavia le mani non sono soltanto delle forme create per stimolare il piacere o l’immaginazione; a volte, al di là delle loro prerogative estetiche, incarnano un pensiero, una filosofia.
Timeless Memory di Horacio Guzman propone questa alternativa. La serie di scatti mostra una o due mani, riprese dall’alto, nell’atto di porgere a un osservatore ideale un piccolo ritratto fotografico. Le mani appartengono al soggetto dell’immagine però, diciamo, lo ritraggono al presente, nel tempo della vecchiaia e del disfacimento, mentre le fotografie, cui le dita sembrano fare da cornice, lo ritraggono in un momento della giovinezza, al culmine della vita che sboccia, un tempo ormai remoto e irrecuperabile.
È stato Sigmund Freud ad affermare, in un saggio del 1929, che le civiltà di ogni epoca, allo scopo di estendere i poteri del corpo umano, hanno munito gli esseri viventi di organi artificiali. Tra di essi ha annoverato anche la macchina fotografica, la cui funzione, fin dalle origini, è stata quella di catturare un’impressione fuggevole, ma con l’intento di conservarla nel tempo sotto forma d’impronta. Marshall McLuhan, partendo probabilmente dall’intuizione freudiana, ha sentenziato, in anni a noi più vicini, che tutti i mezzi tecnologici a disposizione della società umana amplificano le capacità del nostro apparato sensoriale e ha stabilito che il compito della tecnologia fotografica non è tanto quello di estendere l’azione dell’occhio, l’organo della vista, precario e mutevole, quanto piuttosto quello di allargare il campo dei ricordi, ossia di funzionare come protesi per la memoria.
Ma l’essere umano, inteso come complesso di organi corporei, come memorizzava prima della fotografia? Bene, l’arto tecnicamente impegnato in questo lavoro era la mano e il suo prodotto finale era la scrittura. Per farlo essa poteva farsi supportare da un medium “tecnologico” quale la penna, la matita, il pennello, o altro. E così, dalla bocca alla mano la “parola” pronunciata per iscritto si depositava su una superficie come segno visivo, come traccia grafica di un processo. Tuttavia poteva anche agire senza mediazioni, cioè auto-tracciarsi. In fondo questa è la genesi della prime forme di rappresentazione fisica del sé: le impronte del palmo della mano lasciate sulle pareti delle grotte paleolitiche e sulle stele funerarie dell’antichità, o quelle impresse dai bambini sul foglio da disegno. Il corpo attraverso la mano produce una stampa a contatto di se stesso, una fotografia insomma, che infatti, secondo la derivazione etimologica, è proprio un tipo particolare di scrittura. Naturalmente essa è sia una rappresentazione, poiché il gesto del corpo entra nello spazio simbolico della visione, sia una testimonianza, poiché in quello stesso spazio vi incide il marchio della sua identità: oggi, difatti, le cosiddette impronte digitali sono le eredi dirette di quel segno primordiale di autenticazione.
Questo legame intrinseco fra mano e fotografia è chiaramente ribadito in Timeless Memory. Stavolta però l’impronta subisce un rovesciamento, o meglio uno sdoppiamento.
C’è il lato “positivo”, lo specchio di una mappa genetica unica e irripetibile, costante e duratura, e il lato “negativo, l’immagine mutevole e inarrestabile del decorso fisiologico, esibito con massima evidenza dalle rughe della pelle sul dorso della mano. C’è da una parte il ritratto, quindi, che come l’impronta nella caverna si protende verso di noi. Dice: “io sono qui e lo sono ora”, evocando all’istante la presenza vitale del soggetto. Tuttavia questa materializzazione virtuale lo blocca in uno spazio assoluto, lo irrigidisce in un corpo immutabile. Ci sono invece, dall’altra parte, le mani che ugualmente si protendono verso di noi, ma rivelando un altro aspetto della verità: il corpo non è affatto così potente e indistruttibile, anzi è costretto a riconoscere la crescita della sua precarietà, l’estensione della sua agonia. Questo, dopo tutto, è l’ambiguo destino del ritratto fotografico: essere prova inconfutabile di vita e presagio infallibile di morte.