Una panchina, un libroQuando la fine è solo l’inizio

Salvatore Scibona, La fine, 66th and 2nd, 2011 La "fine" che dà il titolo al libro, non arriva alla conclusione del romanzo, ma ben prima, più o meno con le prime 100 pagine in cui si dipana la sto...

Salvatore Scibona, La fine, 66th and 2nd, 2011

La “fine” che dà il titolo al libro, non arriva alla conclusione del romanzo, ma ben prima, più o meno con le prime 100 pagine in cui si dipana la storia di Rocco Lagrassa, panettiere emigrato dall’Italia in America nei primi anni del Novecento, nel quartiere italianizzato di Elephant Park nello stato dell’Ohio. La sua storia malinconica si evolve fino al 1953, nel giorno della grande processione per l’Assunzione. Poi lo scrittore torna indietro nel tempo e riparte con le storie di altri sei-sette personaggi, tutti residenti a Elephant Park – storie che, pur oscillando fra passato e presente, pur incrociandosi l’una con l’altra, arrivano anch’esse a quella grande festa di ferragosto. E molto, troppo lentamente, ci si accorge che le vicende di ognuno dei tanti personaggi girano intorno allo stesso nocciolo narrativo – nocciolo che Scibona si ingegna sadicamente a nasconderci dietro a una spessa cortina fumogena stilistica, dietro a un intarsio di parole selezionate una ad una, in dieci anni di lavoro e di certosina ricerca culminati in questo suo romanzo d’esordio. Ma per il lettore quale insopprimibile tentazione di mollare tutto! Nonostante la critica, che ha paragonato Scibona a Saul Bellow, Graham Greene e Virginia Woolf. E nonostante gli autorevoli premi ricevuti negli Stati Uniti: nel 2008 lo scrittore è stato finalista del National Book Award, nel 2009 ha ricevuto il Young Lions Fiction Award e il Whiting Writers Award . Non solo: nel 2010 è stato selezionato tra i 20 più grandi autori di lingua inglese sotto i 40 anni d’età dal New Yorker.
Anche in Italia, dove La fine è stato appena pubblicato da 66th and 2nd, gli elogi sono risuonati in sedi autorevoli. Ma c’è chi, sottilmente, si è chiesto se non fosse opportuno leggerlo nella versione originale in inglese, riconoscendo la priorità del linguaggio rispetto alla trama (e sottintendendo che forse nella lingua originale la lettura sarebbe meno ostica). Io l’ho fatto e posso confermare che questo è un libro difficile, un libro per chi ha l’infinita pazienza di tornare sulle pagine, di rileggere, di segnarsi dei punti di riferimento per non perdere la bussola. Un romanzo troppo costruito, in cui l’autoreferenzialità dello scrittore, il suo crogiolarsi sul piano linguistico, emerge in ogni personaggio, per quanto diverso e caratterizzato con maestria sul piano descrittivo : un panettiere, un’anziana “mammana” e il marito, morto da trent’anni, un adolescente a disagio con la propria situazione familiare, un gioielliere, una coppia felicemente scaturita da un matrimonio combinato ma condannata a separarsi. Personaggi pennellati sapientemente che però parlano e pensano come Scibona, al di là dei propri limiti culturali e linguistici, e non acquistano l’individualità che contribuisce a tenerci attaccati alla storia. E quando finalmente, ostinatamente, arriviamo all’ultima pagina, ci chiediamo se davvero questa è la fine, o forse siamo ancora nel mezzo o all’inizio.

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