Il debito pubblico italiano è a livelli di guardia dalla fine degli anni ’80, quando il duo De Mita-Craxi lo fece volare dal 60% di inizio decennio a oltre il 100% del Pil. Servì tutto il coraggio (e la determinazione) del trio Prodi-Ciampi-Visco per entrare nell’Unione Economica e Monetaria (Uem) dall’inizio; con questo duro lavoro lo spread fra titoli italiani e tedeschi, cioè il maggior costo da noi sopportato in quanto debitori ritenuti meno affidabili, si abbassò fin quasi ad azzerarsi, dopo essere arrivato a superare il 5% (ricordo ancora la preoccupazione con la quale Ciampi mostrava questo dato sugli schermi dei computer al Tesoro). L’avanzo primario costruito dal “trio” fu purtroppo rapidamente scialacquato dal governo Berlusconi 2, e si tornò gradualmente attorno al 120% del Pil, che è dove ancora stiamo. Come commentò allora Nino Andreatta, il male non era tanto l’indebitamento in sé, quanto il fatto che esso fosse, non la contropartita di investimenti pubblici che avrebbero dato un reddito di lungo periodo, bensì di “cene in pizzeria”.
Ora il nuovo, violento, aumento di quello spread, è ovviamente, legato alla grave sofferenza del debito pubblico dei paesi deboli della Uem (quorum et nos), e all’indecisione di cui dà prova la debolissima leadership europea in questo momento, in cui servirebbe invece, all’opposto, una ferma guida politica. Ci sono però anche una ragione specificamente italiana, e un fatto recente, dietro questo peggioramento subitaneo. Gli elettori italiani hanno mandato, solo negli ultimi due mesi, potentissimi segnali che mostrano come il governo in carica non riscuota più la loro fiducia. I risultati del primo turno delle amministrative, poi i ballottaggi delle medesime elezioni, infine i referendum, hanno avuto questo chiarissimo, inequivocabile significato. Il governo, tuttavia, si fa forte di una maggioranza che comunque resiste, pur se ormai del tutto inerte, e incapace di trovare il bandolo della matassa; di fare, cioè, qualcosa che faccia uscire il Paese dalla ormai lunga stagnazione che- va detto- non è certo responsabilità esclusiva di Berlusconi e dei suoi governi, che pure, in materia, non si sono fatti mancare nulla.
Chi detiene titoli pubblici italiani intuisce che un governo in tali condizioni avrà forti difficoltà ad imporre ai suoi cittadini i sacrifici che sono necessari per affrontare con successo la marea contraria dei mercati. È per questo che la prova di coesione nazionale data con la velocissima approvazione della “manovra” correttiva è importante. Essa tuttavia non è sufficiente a diradare i timori degli investitori. È evidente a tutti che questa manovra non basta, ma soprattutto che sotto la superficie è in atto un violento scontro fra il capo del governo e il ministro dell’Economia, Tremonti. Col che gli elementi di perplessità diventano due: non solo il governo che impone i sacrifici non è più gradito al Paese, ma esso è anche diviso al proprio interno. Una famiglia che ha molti debiti, ma unita, non fa paura ai creditori, mentre molta, e anche oltre il ragionevole, ne fa una famiglia rissosa oltre che indebitata. Si aggiunga, terzo e importante elemento di perplessità, che il ministro dell’Economia, percepito dai mitici “mercati” come l’ancora di salvezza dei conti pubblici, si trova in posizione di grave debolezza, a causa dei suoi legami, fin qui non spiegati, con il deputato Marco Milanese, del quale è stato chiesto l’arresto per gravi fatti di corruzione e di ostacolo alle indagini. È difficile sottrarsi al dubbio che se tali legami non sono spiegati è solo perché sono inspiegabili: che ci sia, cioè, qualcosa che non si può, o vuole, dire. Per quali ragioni, cioè, un uomo molto ricco e navigato, come il super-ministro, fosse ospite di un personaggio siffatto in un lussuoso appartamento che il ministro era perfettamente in grado di pagare pronta cassa.
Non ci interessano dettagli strettamente privati, Linkiesta lo ha detto, e va tenuto presente il rischio che si sia di fronte a operazioni come quella che ha tolto di mezzo Boffo, ex direttore dell’Avvenire; ben altri sono i pericoli. Vorremmo però sapere, e purtroppo la stessa curiosità hanno gli investitori, se l’argine sui conti pubblici c’è, se il ministro è ancora in grado di svolgere il suo delicatissimo compito; e se no, perché. Parli dunque Tremonti, e chiaro; bisogna pulire l’aria in fretta, ma ancora non basta. Serve infatti un cambio radicale, con un governo che vari una nuova legge elettorale e ispiri fiducia a tutto il Paese, riscuotendone una altrettanto ampia in Parlamento. Il costo del nostro debito potrebbe farsi insostenibile. L’Italia, anche se spesso lo dimentichiamo, è e resta un grande Paese; che non merita di restare, per colpa di un governo del tutto inerte, diviso e sul quale gravano pesanti ombre, “nave sanza nocchiero in gran tempesta”. Oggi c’è quella dei mercati, domani rischiamo quella sociale, perché sotto la cenere la brace cova. Sarebbe saggio prepararsi a questa eventualità.