Si chiamano EOD, acronimo che nel vocabolario militare sta per Explosive Ordnance Disposal: sono gli artificieri, i reparti iperspecializzati delle forze armate cui viene affidato il compito di cercare e distruggere mine e proietti inesplosi dai teatri di guerra, o da quelli che la guerra l’hanno vista passare. Quasi mai si sente parlare di loro sui media, un po’ perché il loro è un lavoro che bisogna fare senza far troppo rumore, né movimenti bruschi, un po’ perché il più delle volte cominciano a lavorare proprio quando la guerra finisce, e sul campo restano in silenzio i suoi retaggi più maligni, in attesa che qualche vittima ignara li caplesti. Eppure se Forbes decidesse di lasciar perdere per un attimo i Paperoni del mondo e si dilettasse a stilare classifiche sui mestieri più rischiosi, beh, fare parte di una squadra EOD garantirebbe sicuramente un posto nella top ten.
A chi scrive è capitato di fare la conoscenza di questi professionisti della bonifica un annetto fa, quando si trovava in Kosovo per un media tour organizzato dallo Stato Maggiore della Difesa. Una sorta di sopralluogo a beneficio di quei giornalisti (molto pochi, per la verità), che a dieci anni dal conflitto che l’aveva vista nascere in un bagno di sangue erano interessati a tastare il polso alla provincia più tormentata d’Europa che aspira a diventare Nazione.
Lo Staff Officer del team EOD in Kosovo, di stanza presso la gigantesca base “Villaggio Italia” di Belo Polje, nel cuore della municipalità di Pec, era il capitano Luciano Tarantino. Al suo comando, una squadra di militari col Tricolore sul braccio impegnata a bonificare quella fetta di territorio kosovaro nella zona ovest della provincia che la Nato ha affidato al controllo italiano.
E’ stato proprio lui a raccontare cosa significa essere EOD in quello che fino a poco tempo fa è stato uno dei teatri più delicati e complessi per chi è chiamato a svolgere questo genere di attività operativa, e che adesso marcia fiduciosa lungo il cammino accidentato che porta alla normalizzazione. «Servono sangue freddo, esperienza, preparazione tecnica. E la consapevolezza che quando si comincia qualcosa bisogna portarla a termine». Già, perché, spiega il capitano Tarantino «il nostro è un lavoro nel quale non si possono lasciare le cose a metà».
La minaccia può nascondersi dappertutto, ed anche l’oggetto all’apparenza più innocuo può celare in realtà una mina antiuomo, una bomba rudimentale pronta ad esplodere al primo tocco, un ordigno inesploso. Anzi, molto spesso, ed è il caso delle mine in particolare, il camuffamento non è fatto per nascondere il pericolo, ma al contrario per attirare l’attenzione della potenziale vittima. Come se già tutto questo non bastasse già a rendere le cose complicate, una mina può nascondere un “sistema di trappolamento”, piazzato apposta per esplodere al primo tentativo di disinnesco, oppure nascondere un altro ordigno, come nel caso delle mine anticarro sovrapposte l’una all’altra, la sottostante innescata per esplodere non appena l’altra viene rimossa.
Per questo un operatore EOD deve essere in grado di individuare il pericolo al minimo segnale, e mettere in atto tutte le procedure necessarie a scongiurarlo. Anche se a volte, purtroppo, nemmeno preparazione, perizia e cautela riescono ad evitare incidenti e vittime.
Nel prefabbricato all’interno di “Villaggio Italia” che ospita il team, c’è un’intera stanza dedicata alla raccolta e all’esposizione del materiale bellico rinvenuto sul campo dalla sua squadra e dalle altre che, a partire dal 1999, hanno operato sotto l’egida della Nato per riportare la pace in terra kosovara. Sembra un museo di guerra in formato mignon realizzato raccogliendo qua e là le testimonianze di una guerra che, per fortuna, tace ormai da un decennio. In realtà, agli addetti ai lavori, basta un rapido sguardo lì dentro per avereben chiaro in testa con cosa ci si può trovare a fare i conti quando si entra in azione.
Oggi il lavoro degli artificieri ha reso ciascuno di questi oggetti totalmente inoffensivo, un semplice spauracchio di quello che erano un tempo. Ieri, la loro presenza sul territorio poteva significare pericolo di morte per ogni uomo, donna o bambino ci fosse inavvertitamente incappato. Resta solo un’antologia da brivido che testimonia solo un frammento di quello che gli artificieri italiani hanno dovuto penare per rendere le strade, e soprattutto le campagne del Kosovo, di nuovo praticabili.
Proietti, bossoli, bombe a mano, fucili, mitragliatrici e piccoli pezzi d’artiglieria, e poi ancora mine anticarro e antiuomo, e munizioni di ogni genere e provenienza. Alcuni sono residuati bellici risalenti addirittura alla Seconda Guerra Mondiale, e riutilizzati alla bisogna dai combattenti di entrambe le fazioni durante i sanguinosi scontri tra l’esercito serbo e i guerriglieri di etnia albanese dell’UCK. Altri, negli anni in cui il conflitto imperversava, rappresentavano gli ultimi ritrovati della tecnica. Tutto faceva alla bisogna nel tentativo di annichilire e cancellare dalla faccia della terra quelli che fino al giorno prima erano soltanto vicini di casa. Non mancano ovviamente i resti delle famigerate cluster-bombs, le bombe a frammentazione con un involucro, il cosiddetto “dispenser”, che si apre quando l’ordigno è ancora in caduta libera, seminando il proprio carico di morte in un raggio che può toccare anche diverse centinaia di metri.
Sono state proprio le cluster, assieme alle mine antiuomo, ad aver rappresentato per lungo tempo il rischio più grande per la popolazione locale. «I colori sgargianti, la forma inconsueta e i piccoli paracadute di nylon cui sono collegati gli ordigni ne facevano spesso oggetti irresistibili per i bambini che li rinvenivano per strada, nei prati, nei campi coltivati, con tutte le terribili conseguenze che si possono immaginare» racconta il capitano Tarantino. Per questo tra i compiti dell’EOD c’è anche quello di istruire i locali circa i rischi legati alla presenza di ordigni inesplosi sul territorio: «Costruire un rapporto di fiducia e collaborazione non solo con le autorità locali, ma anche con la gente comune, è fondamentale per il nostro lavoro. Spesso sono gli stessi civili a segnalarci per primi la presenza di oggetti dall’aria sospetta, che possono rivelarsi mine o ordigni inesplosi».
Altrettanto importante, specie in teatri fortemente abitati, come il Kosovo, è operare con la consapevolezza di dover raggiungere l’obiettivo il più rapidamente possibile, limitando al massimo il rischio di danni collaterali. Il rinvenimento di un ordigno in un campo destinato alla coltivazione, in un’abitazione o in un negozio, con la conseguente evacuazione e interdizione, infatti, può significare per una famiglia o un intero villaggio la privazione a tempo indeterminato dell’unica fonte di reddito, dell’unico possibile sostentamento.
«Qualche tempo fa fummo chiamati a bonificare una porzione di edificio che ospitava un’agenzia di viaggi. Ricordo ancora lo stupore e la gratitudine del proprietario, quando scopri che in eravamo riusciti a rimuovere l’ordigno in pochissimo tempo» raccontava l’allora Staff Officer EOD italiano. «E senza rompere niente» aggiunge, sorridendo.
Già, si lavora sempre in silenzio, senza far rumore. Bisogna fare presto e bene, e sgomberare il campo con la stessa rapidità con la quale si è intervenuti. Anche se questo significa finire di rado sui giornali.