Google e gli altriIl reality show della Casa Bianca e la pressione della Rete

Durante la campagna elettorale del 2008 Obama ha insegnato a tutti gli avversari quanto dovessero temere la forza di comunicazione dei social network. Una delle leggende più gettonate nella ricostr...

Durante la campagna elettorale del 2008 Obama ha insegnato a tutti gli avversari quanto dovessero temere la forza di comunicazione dei social network. Una delle leggende più gettonate nella ricostruzione del suo successo vuole che l’allora candidato alla presidenza fosse riuscito a guadagnare la fiducia del pubblico bianco, facoltoso e progressista, grazie alla capacità di comunicare con loro tramite Twitter. Obama alternava messaggi ufficiali in terza persona con gli impegni istituzionali, a messaggi in prima persona, in cui lasciava spazio alle chiacchiere e alla conversazione più mondana. Il futuro presidente sapeva modulare il linguaggio della formalità e quella del gossip, abbassava l’aura magica dei personaggi senza dissacrare le istituzioni: insomma, tutti lo sentivano come parte della propria tribù – con un giudizio unanime ognuno per la propria tribù.

Da allora i repubblicani sembrano aver imparato la lezione. Non solo hanno recuperato il distacco culturale che li separava dai democratici, ma li hanno addirittura sopravanzati. La School of Information e il College of Engineering della University of Michigan hanno condotto un’analisi sugli eventi che hanno caratterizzato le elezioni di medio periodo del 2010. L’indagine ha coinvolto 460 mila tweets composti da candidati di entrambe le camere. I risultati mostrano che l’attività dei repubblicani è allo stesso tempo più coesa e più concentrata su argomenti di base: deficit, debito, spesa, budget. I democratici invece si sono mostrati meno dediti al dialogo con il pubblico, con una media per ogni candidato di 172 tweet in meno rispetto agli avversari. Ciascuno di loro si è occupato di una varietà di temi più estesa, dall’educazione al lavoro, dall’energia pulita alle riforme.

Ma la differenza nell’intensità del lavoro di dialogo produce come risultato un tipo di dato che in Italia appare sempre trascurato, qualunque sia l’indagine sul ruolo dei social media in questione: la densità della rete sociale. Questo parametro permette di verificare non solo il numero di connessioni che ogni profilo si è conquistato in termini di followers su Twitter, ma di valutare la tendenza che gli interlocutori mostrano nell’essere a loro volta connessi tra loro. Quanto maggiore è il numero di relazioni che i followers hanno stretto in modo reciproco, tanto superiore è la densità della rete sociale. Si tratta di un valore decisivo per il successo della divulgazione delle informazioni da parte del candidato o del politico che investe nella comunicazione su Twitter (ma lo stesso discorso vale naturalmente anche per Facebook, o per YouTube).

In una rete molto densa, le operazioni di retweet e di menzione permettono al contenuto di un messaggio di diffondersi in modo rapido ed efficace tra tutti gli interlocutori possibili. Una rete poco densa tende invece a frammentarsi in gruppi relativamente separati tra loro, e a sfilacciarsi in una periferia di soggetti che sono sempre meno connessi con altri cluster fino all’isolamento completo. Per riuscire a raggiungere tutti i segmenti del pubblico interessato occorre in questo caso profondere un investimento molto superiore, andando a colpire ciascuna delle cerchie sociali che gravitano nella rete, senza poter contare sulla loro autonomia nello scambiare le notizie, nell’arricchirle di commenti, di critiche, di citazioni, ecc.

In America la rete più densa è quella dei Tea Party: in media i membri di questa configurazione sociale tendono a retweettare i messaggi dei loro colleghi 82,6 volte, contro la media di 52,3 dei repubblicani, e solo di 40 volte dei democratici. La densità della rete ha permesso alla destra conservatrice estrema di reagire con estrema prontezza a tutte le notizie di compromesso che via via emergevano nel corso della recente crisi sul debito, imponendo una forte pressione ai deputati e ai senatori repubblicani impegnati nel dibattito parlamentare. La loro influenza nell’ambito dell’opinione pubblica viene percepita secondo una scala di intensità molto elevata, in virtù dell’immediatezza e della forza di mobilitazione che è in grado di suscitare. La capacità di coinvolgimento da parte dei democratici appare invece rallentata e disgregata; il loro potenziale è dimezzato rispetto all’influenza esercitata dai Tea Party. L’ala estrema del conservatorismo ha anche imparato a rendere facilmente reperibili i suoi messaggi, al fine di agevolare la loro diffusione in rete: l’impiego di hashtag ricorre in media 753 volte, contro le 404 dei repubblicani e le sole 196 dei democratici.

Le reti sociali dei politici italiani su Twitter conquistano gradi di densità così bassi da renderli fenomeni degni di studio. L’assenza di interesse per il dialogo con il pubblico si converte in un’assenza di interazione tra i followers dei loro profili. L’esito di questa strategia è l’inerzia della rete e l’anestetizzazione del dibattito. Il neonato profilo di De Bortoli è stato in grado in un paio di settimane di attività di superare per ampiezza il profilo ufficiale del Governo italiano, e per densità la rete di tutti i politici di destra. Naturalmente il direttore del Corriere può contare sulla relazione con alcuni hub della rete, come Luca Sofri, Beppe Severgnini, Claudio Cerasa, Sergio Maistrello e Marco Massarotto. C’è spazio anche per il nome dei pochi personaggi politici che si impegnano in prima persona nella comunicazione con i nuovi media, come Andrea Sarubbi. Il valore percentuale della densità della rete di De Bortoli rimane comunque di poco inferiore allo 0,01%, sebbene alcuni tentativi di dialogare con il pubblico da parte del direttore lascino sperare qualcosa di meglio per il futuro.

Una rappresentazione grafica della rete Twitter di De Bortoli è visibile qui sotto: viene posto in evidenza il cluster che include l’hub Andrea Sarubbi.

Obama ha reso competitiva la comunicazione politica sui social media rispetto alla pubblicità dei brand commerciali. Molti analisti americani dei media hanno individuato nel presidente una formidabile operazione di marketing nei confronti degli Stati Uniti, intesi come un marchio da “vendere” all’estero. Poco prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la concorrenza di Nike, Apple e Zappos nell’aggiudicarsi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari. Cinque mesi dopo l’inizio del mandato, il Pew’s global attitudes project ha verificato che in Giordania ed Egitto il consenso era cresciuto di quattro volte rispetto all’epoca Bush, mentre la fiducia verso il presidente USA in Francia era salita dal 13% al 91%, e dal 16% all’86% nel Regno Unito. Obama ha trasformato la Casa Bianca in uno strumento di propaganda, interpretandola come un meraviglioso reality show in diretta per gli americani: si pensi alle foto della negoziazione sul debito e agli idilliaci interni di famiglia con cane, che proseguono la strategia di ufficialità e umanità inaugurata dai tweet della campagna elettorale.

Non mancano naturalmente critiche nei confronti di questa concezione del mandato presidenziale, come la richiesta di Naomi Klein di passare da una strategia di rebranding degli Stati Uniti ad un’azione riformatrice che badi alla sostanza. Oltre a saper comunicare bene bisognerebbe avere qualcosa di sensato da dire: non ci si può limitare a sostenere tutto e il contrario di tutto in modo da intercettare il favore di ogni segmento del pubblico. Obama ha annunciato la chiusura di Guantanamo e al contempo ha allargato il carcere di Bagram in Afghanistan, ha nominato la prima giudice latinoamericana della Corte Suprema e dato un giro di vite alle leggi sull’immigrazione, ha richiamato l’attenzione sull’energia pulita ma si rifiuta di tassare le emissioni di CO2, ecc.

I politici italiani non hanno nulla da invidiare ai colleghi americani quanto a vacuità di contenuti. Da noi si rovesciano le parti: la sinistra ha una rete più densa rispetto alla destra – che in fondo, quasi non ha una rete. Per il resto, anche la politica italiana si fonda su una colossale operazione di marketing gestita tramite sondaggi, operazioni pubblicitarie, azioni di makeup superficiale, senza alcuna forma di progetto economico e sociale. Ma persino sulla pubblicità, strumenti e idee appaiono inesorabilmente provinciali. Il carosello televisivo da noi è ancora avanguardia; il web nonostante i quasi 20 anni di onorata carriera è ancora uno sconosciuto new media; e la competizione è nella scelta tra chi, destra o sinistra, lava più bianco. In fondo, come sa la Lega, se le tasse sono tante, milioni di milioni, la colpa è dei negroni.

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