«Scusate, ci eravamo sbagliati: il Kosovo fa ancora paura». I vertici militari della NATO chiedono all’Alleanza Atlantica di mandare rinforzi alla missione KFOR. E il quartier generale di Napoli decide di mandare un nuovo battaglione.
E’ forse un po’ tardivo il ravvedimento in corsa di chi già guardava alla neonata repubblica kosovara come ad una terra pacificata e pronta a camminare con le proprie gambe verso un nuovo destino. La verità è che nei fatti il Kosovo non c’è e non c’è mai stato per davvero, se non nella testa dell’allora amministrazione Clinton, desiderosa soltanto di inferire un altro duro colpo al tiranno Milosevic, nel revanchismo di parte albanese, e in alcune carte geografiche “politicamente corrette”.
La credibilità esterna del governo del premier Hasim Thaci è ai minimi storici, pesantemente minata da una corruzione dilagante, dalle pesanti accuse di copertura dei traffici di droga, armi ed esseri umani, e dalle ombre di un presunto coinvolgimento nell’utilizzo dei prigionieri di guerra serbi per alimentare il commercio di organi. Quella interna, invece, arriva fino a che non incontra la barriera della diversità etnica. Ne sono una prova gli scontri dello scorso 27 luglio, quando gruppi di giovani ultranazionalisti serbi hanno preso d’assalto i check point della Kosovo Police e una base KFOR: quegli incidenti sono stati solo il culmine di tre giorni di forti tensioni seguite alla decisione di Pristina di inviare le forze speciali della polizia nei territori a maggioranza serba per rafforzare l’embargo imposto alle merci serbe, una ritorsione al boicottaggio che Belgrado a sua volta applica ai prodotti “Made in Kosovo” sin dai tempi della dichiarazione d’indipendenza.
Persino gli uomini di EULEX, i “missionari” togati inviati dall’UE per fare del Kosovo uno Stato di Diritto, vengono ormai guardati con diffidenza da entrambe le parti. Dai serbi, soprattutto, perché rappresentano un’ulteriore legittimazione internazionale alla sovranità di quella che Belgrado considera solo una provincia ribelle. Ma anche dai kosovari di etnia albanese, che cominciano a malsopportare le ingerenze straniere in quella che ormai chiamano patria.
Nonostante tutti gli ottimistici proclami il Kosovo resta una terra dilaniata dagli scontri etnici che continuano a covare sotto la cenere, pronti ad infiammare le cronache, proprio come nel caso dell’assalto portato dai giovani nazionalisti serbi ai check-point della polizia di stato. Uno stato che la parte serba non ha mai riconosciuto, figurarsi dunque le sue emanazioni autoritarie.
In dieci anni non è cambiato nulla, se non per il fatto che non ci si spara più per le strade. Certo, a visitarlo con l’occhio del turista il Kosovo oggi è ben più sicuro di quanto potrebbero esserlo le periferie di tante città europee. Tra i giovani albanesi, che crescono guardando in televisione le immagini di un’Italia opulenta e sorridente e citano Silvio Berlusconi come il modello del self-made-man di cui il Kosovo ha bisogno per risollevarsi, c’è una gran voglia di sentirsi europei al 100%. Nei negozi, nei ristoranti, nei bar, per strada, si compra e si vende in Euro. Euro sono anche le banconote erogate da tutti i bancomat. Anche i giovani serbi sognano l’Europa, ma non sono disposti a vedere amputata la loro madrepatria per ottenerla. E poi ci sono le ferite della guerra, che non si sono mai rimarginate e fanno ancora male. Tutti piangono almeno un morto in famiglia, qualcuno che magari al momento di andarsene non aveva nemmeno trent’anni. Tutti si sono risvegliati dieci anni fa con un vicino di casa diventato un nemico da abbattere perché parlava una lingua diversa, per poi ritrovarsi oggi con un nemico ridiventato vicino di casa in forza della legge di un nuovo stato e sotto i colori una nuova bandiera. Difficile fingere che non sia successo nulla, anche per gli uomini di buona volontà.
Alle tensioni etniche si aggiungono poi le difficoltà legate a problemi comuni: la disoccupazione dilagante, il costo della vita elevatissimo, la mancanza di un tessuto industriale che priva il Kosovo dell’autosufficienza economica e, non da ultima, gli effetti della crisi economica internazionale. Qui, infatti, gli echi del difficile frangente internazionale risuonano amplificati, a causa dell’assenza di un sistema produttivo sviluppato e capace di assorbire il colpo.
Ad evitare il collasso è rimasta soltanto “la sottile linea grigioverde” delle uniformi KFOR, una linea sempre più sottile e provata da anni di progressivo ridimensionamento in favore di fronti considerati più “caldi”, come l’Afghanistan. Anche la presenza italiana era stata già ridefinita nel corso dell’anno passato a livello di Task Force a quello di Battle Group, convertendo l’impegno nazionale dall’impiego di una brigata a quello di un battaglione. Ora la nostra presenza assomma all’incirca a 570 unità, concentrate prevalentemente sulla base militare “Villaggio Italia”, a Belo Polje, e sull’aeroporto di Dakovica.
Adesso, però, i 5.700 soldati della KFOR, che nelle ottimistiche previsioni della NATO del 2009 avrebbero dovuto diventare 2.300 entro la fine di quest’anno, non bastano più. L’Alleanza sta per inviare un nuovo battaglione di rinforzo: 550 soldati tedeschi e 150 austriaci, che avranno il compito di ridare fiato alla missione ed evitare che la tanto attesa riappacificazione si smarrisca troppo in là nel calendario.