Ricevo e pubblico un post di Vincenzo Pane, che era in Piazza il 15 ottobre.
«Non e’ possibile continuare cosi’. Se venivo a Roma altro che indignados. Equitalia, tasse. A breve chiudo uno dei miei due negozi, devo licenziare quattro persone: mi devo salvare. Come me lo stanno per fare tanti commercianti soffocati dai debiti». Ore 23 a Benevento, sono appena tornato dalla manifestazione di Roma, degli indignati. Lui e’ un omone, un gigante. Ti guarda con gli occhi della rabbia, si sposta da un lato all’altro del bancone. Avresti paura ad affrontarlo. Ma e’ fragile. La moglie, piccola, la sua “meta’”, lo fissa. Lui si appoggia con i gomiti alla cassa, ha bisogno di reggersi. «Basta» sussurra «lavoro venti ore al giorno e non arrivo a fine mese. Sono laureato, ho vinto un concorso. Non volevo chiedere la carità a nessuno. Preferivo mettermi in proprio ed ora ecco i risultati dopo anni di sacrifici» sussurra mentre mi porge il kebab e una Peroni. Una radio nel piccolo locale racconta la giornata, gli scontri di Piazza San Giovanni. La conta dei feriti. Le auto bruciate. La solidarieta’ vomitata dai rappresentanti delle istituzioni, che ripetono meccanicamente la stessa cosa: ascoltare le ragioni dei manifestanti ed isolare i violenti.
La partenza e’ fissata alle 10.00 e con il piu’ classico dei ritardi raggiungiamo il corteo poco dopo le 15. La prima cosa che colpisce e’ il fiume umano di persone. Una manifestazione spontanea. Bambini, ragazzi e tanti adulti che urlano la rabbia contro un sistema economico ormai fallito, contro il governo, contro la paura di non farcela. La musica ci accompagna. All’orizzonte le prime nuvole nere, arrivano voci e telefonate «attenti, avanti ci sono cariche, qualcuno sfascia tutto». Nel nostro spezzone ci sono anche ragazzi di 15 – 16 anni ed inevitabilmente la tensione sale «ora cosa facciamo?». Le casse sparano Battiato, i piu’ giovani danzano mentre le prime auto in fiamme ci ricordano che non siamo soli e che non ci potremmo mai incontrare tutti a Piazza San Giovanni come previsto. Le ambulanze e i pompieri si fanno largo. Degli incappucciati ci affiancano, li isoliamo, cacciati e insultati. Stringiamo il cordone protettivo. Loro, casco in testa e fumogeni. Vanno piu’ avanti. Negozi vandalizzati, banche e pompe di benzina distrutte. L’unica cosa da fare e’ fermarsi al Colosseo. Il corteo e’ spezzato in due, la gente scappa. Tutti dicono, troppi dicono, che hanno vinto loro, i cattivi, la politica ladra e i poteri forti. Che e’ andata male.
«Ma in realta’ fino ad ora e’ mancata la politica, chi desse una ricetta a quanto e’ stato fatto di male in questi venti anni» mi dice dopo il corteo un caro amico: concordo. Contiamo chi e’ venuto con noi, qualcuno manca, altri arrivano dal “fronte” con gli occhi rossi e poca voce, non solo per i lacrimogeni. Ci siamo spostati a Piazza Vittorio con l’intero spezzone e la FIOM. Parliamo, i microfoni sono ancora accesi. «L’unica cura e’ la politica che deve scendere in campo: e’ questo il dramma» ripete per la seconda volta il mio amico. E aggiunge che l’errore e’ chiaro «hanno vinto il neo liberismo e gli speculatori: hanno lasciato fare tutto al mercato. Questa finanza non e’ una malattia di un sistema sano, ma la febbre di un sistema malato». Come non dargli ragione.
L’omone si concede una risata «Ho solo la Peroni perche’ la gente ti chiede sempre altro anche se hai dieci birre: io semplifico». Poi riprende con il “noi” e “loro” «Il medico sopra non paga le ricevute, i politici prima fanno finta di litigare e poi molti di loro vanno assieme a cena, la grande finanza ci ha mangiati vivi». Ora non scherza piu’: «Bisogna organizzarsi, scendere in strada. Avete fatto bene a protestare» dice. «Siamo soffocati e nessuno ci ascolta. La crisi ci uccide lentamente e nessuno se ne importa». Poi ti riguarda, dritto negli occhi. Strappa un foglio. «La prossima volta vengo anche io». Forse il 15 ottobre e’ solo l’inizio.