È cronaca di questi giorni. Migliaia di persone scendono in piazza, prendono d’assalto i luoghi emblema della loro lotta, reclamano a gran voce un posto all’interno della storia.
Abbiamo imparato a conoscerle. Sono abituate all’incertezza e al disincanto, non pretendono spiegazioni poiché sanno che nessuno gliele darà, vorrebbero soltanto un’occasione, una semplice, una qualunque, affinché in loro non muoia il pensiero del futuro.
Adesso non sono più disposte a rimandare, a rimettere in discussione le loro idee. Adesso sono pronte ad agire. La loro fame e la loro follia, per parafrasare un illustre americano da poco scomparso, hanno oltrepassato la soglia di guardia e hanno cominciato a straripare sulle strade e sulle piazze di mezzo mondo: da Londra a New York, da Madrid a Roma, da Berlino a Milano.
Queste recenti mobilitazioni non esibiscono gli interessi di un gruppo particolare, di una categoria sociale deragliata dai binari della giustizia e dello stato di diritto, come era accaduto con gli studenti universitari, i ricercatori, i cassintegrati dell’industria e gli insegnanti precari, ma al contrario dicono di rappresentare un sentire comune, di essere un popolo. Certamente sono “figli” indignati con i “padri”, o meglio con il modello culturale perpetrato dalla gerontocrazia della politica, dell’industria, dell’alta finanza su cui è stato edificato il destino fatiscente della nostra storia.
Pur essendo giovani, forse anche giovanissimi, non possiedono l’illusione consolatoria che ha salvato le generazioni oggi al potere, giovani forse anche giovanissime negli “anni ottanta” del secolo scorso, ma hanno sentito, dopo tanti anni di attesa silenziosa, una tensione acuta e irrefrenabile, un’ansia urgente, incalzante che li spinge senza tregua al raggiungimento di un nuovo orizzonte, anche se ancora tutto da immaginare.
Questa sorta di compensazione ideale del vuoto asfissiante che si espande tutt’intorno li affratella ad altri movimenti comunitari saliti alla ribalta delle cronache alcuni decenni or sono per aver inondato strade e piazze e per aver usato parole di riscatto e di rinascita.
Bisogna impedire oggi, a qualunque costo, che queste folle entusiaste si disperdano, che la memoria all’origine del loro fascino e della loro bellezza si dilegui. Le istanze di rinnovamento e di partecipazione civile non si possono consumare nella retorica delle circostanze, ma devono invece crescere e durare nel tempo prorpio come la verità, e come la verità devono farsi immagine.
Ce lo ha insegnato e continua a farlo un autentico “giovane dentro”. Mi riferisco a Tano D’amico, grande narratore di fotografia, intento fin dai mitici giorni del ’77 a farci riflettere sulle storie di tutti quelli a cui è stato rubato il futuro: dai movimenti studenteschi a gli zingari, dai palestinesi agli immigrati, dai malati ai detenuti in carcere.
Nel suo ultimo libro Di cosa sono fatti i ricordi. Tempo e luce di un fotografo di strada, Tano si rimette in cammino fra le immagini incontrate e fissate nel corso degli anni che, qualche tempo aveva già accompagnato sulle pagine del settimanale “Gli Altri” con brevi pensieri in forma di scrittura.
Nomi, luoghi, date, il cosiddetto contesto pubblico dei fatti sono chiaramente importanti ma non determinanti, perché vanno a ridefinirsi nel tempo privato della lettura, della visione mentale, dell’ascolto interiore, ogni volta diversi e singolari. Hanno bisogno dello spettatore attuale per animarsi, per permettere alla luce secca e cruda del bianco e nero fotografico di fibrillare. Solo così, secondo Tano, si può custodire, soddisfare e diffondere attraverso le immagini, l’esigenza di verità e di bellezza che ci contraddistingue. Verità e bellezza, tuttavia, non sono proprietà intrinseche della materia, doni di natura, ma sono l’effetto del pensiero umano. Sono stili di visione e d’immaginazione che si congiungono agli stili di vita e d’azione, alle scelte etiche dei soggetti in campo. Siccome la bellezza è, per Tano, sinonimo di potenza, l’immagine fotografica più riuscita sembra conciliarsi alla perfezione con l’estetica contemporanea in cui la rappresentazione del bello non infonde mai la pace contemplativa, ma, come dice Remo Bodei, fa dilagare la violenza delle passioni e dei sensi. La bellezza non deve consolare, bensì scuotere sino a tormentare. Deve appellarsi alla capacità palingenetica ed inesauribile delle domande essenziali per cui l’uomo è chiamato a trovare delle risposte. Purtroppo, e in questo Tano è radicale, solo certe immagini la sanno provocare e tramandare. Ma, per fortuna, grazie al suo aiuto e ai suoi ricordi, possiamo rivederle riverberare sulle piazze e sulle strade di questi splendidi, bellissimi giorni.