Una panchina, un libroTèa Obreht, L’amante della tigre, Rizzoli, 2011

“Capisci? Questo è uno di quei momenti”. “ Quali momenti?” “Uno di quei momenti che ti tieni per te”, disse il nonno. “Cosa vuoi dire?” gli chiesi. “Perché?” “Siamo in guerra” disse. “La storia di ...

“Capisci? Questo è uno di quei momenti”.
“ Quali momenti?”
“Uno di quei momenti che ti tieni per te”, disse il nonno.
“Cosa vuoi dire?” gli chiesi. “Perché?”
“Siamo in guerra” disse. “La storia di questa guerra – date, nomi, chi l’ha iniziata, perché – appartiene a tutti. Non solo alle persone coinvolte, ma a quelle che scrivono i giornali, ai politici che vivono mille miglia da qui, a persone che non sono mai state qui, che non ne hanno mai sentito parlare. Ma qualcosa come questo – questo è tuo. Appartiene solo a te. E a me. Solo a noi.” (la traduzione è mia)

La guerra che cancellerà la Iugoslavia dalle cartine geografiche è iniziata da qualche mese. In una Belgrado deserta per il coprifuoco, un elefante avanza lentamente nella notte in direzione dello zoo attirato da un giovane che gli offre di tanto in tanto qualcosa a cui la golosità dell’animale non può resistere. Alla scena assistono attoniti un nonno e sua nipote, Natalia. Il profondo rapporto d’amore che lega i due è il filo conduttore che unisce le storie fantastiche di questo romanzo d’esordio di Téa Obreht.

A soli 25 anni, la Obreht ha vinto l’Orange Prize for finction 2011 , il prestigioso premio letterario riservato ai romanzi in lingua inglese scritti da donne. Nata a Belgrado nel 1987, dopo lo scoppio della guerra nel 1991, è emigrata con la sua famiglia a Cipro, poi in Egitto, stabilendosi finalmente negli Stati Uniti, quando aveva dieci anni. In America ha acquisito una straordinaria padronanza della lingua, che, unita a una naturale predisposizione al racconto di fantasia, tipico della cultura balcanica, ha prodotto un romanzo sorprendente dove la cruda realtà di una guerra fratricida si confonde con la magia, il mistero e le antiche superstizioni, trasportandoci in un mondo dove la morte convive con i vivi e i vivi con i morti.

Il libro si apre con la notizia della scomparsa dell’amato nonno, anziano medico cui il regime serbo aveva imposto di cessare la propria attività. Natalia, che ha seguito le sue orme diventando medico anch’essa, sta portando medicine e aiuti , con l’amica Zora, a un orfanotrofio che si trova oltre i nuovi confini del suo paese. La guerra è finita da dodici anni, ma gli effetti sono ancora tangibili sui volti e sui comportamenti di bimbi e adulti. Ci sono mine inesplose nei campi. La gente cerca i cadaveri dei parenti per dargli una degna sepoltura. I bambini ricordano la morte ossessivamente nei loro disegni.

In un’ottica super partes, Obreht non nomina mai i luoghi di cui tanto abbiamo sentito parlare durante la guerra nella ex-Iugoslavia. Siamo “in un paese dei Balcani ancora segnato guerra”, “la Città” potrebbe essere Belgrado, “il Maresciallo” potrebbe essere Tito. E’ immaginario anche Galina , paese natio del nonno, dove si sviluppa la storia del titolo: durante la seconda guerra mondiale una tigre scappa dallo zoo di Belgrado sotto le bombe (ricordate il film Underground di Emir Kusturica?) e terrorizza gli abitanti del villaggio . Ma la tigre non è che uno dei tanti “personaggi” che popolano le favole surreali della Obreht . Ci sono l’uomo condannato a non morire mai, il cacciatore di orsi che forse è l’incarnazione di un orso, il macellaio omosessuale ex-musicista che si vendica del suo destino sulla moglie sordo-muta – la quale a sua volta diventerà “l’amante” della tigre.

Dipingendo questo mondo immaginario, la Obreht attutisce la realtà del conflitto sanguinoso che ha sconvolto il suo paese di origine . La sua è una visione distaccata e poco emotiva che forse può lasciare perplessi, anche se l’orrore per la guerra e il senso della morte pervadono tutta la narrazione. Ma fra tanto fantasticare c’è almeno un momento in cui emerge con forza tutta la commozione per le sofferenze inflitte sulla gente di entrambi le parti. E’ quando il nonno viene a sapere dai mercenari serbi dell’imminente bombardamento della città di Sarobor (Mostar) a prevalenza musulmana. E invece di scappare, torna nel ristorante dove aveva trascorso la luna di miele con la moglie bosniaca. Il locale è deserto, c’è solo un cameriere anziano che con un cerimoniale degno dei fasti del passato gli serve una cena sontuosa. Il dottore, sommerso dai ricordi, si accomiata dalla vecchia Iugoslavia. Insieme a lui c’è l’uomo che non muore mai, l’emissario della Morte, e il dialogo fra i due ha una straordinaria forza narrativa, degna di una pièce teatrale. L’uomo che non muore mai rivela al vecchio dottore che il cameriere perirà presto sotto le bombe. E che non è il caso di avvertirlo perché la morte arriverà all’improvviso.

“All’improvviso?” gli dico.
“All’improvviso” mi ripete .“ La sua vita, così come la sta vivendo – bene e con amore, con amicizia – e poi all’improvviso…Mi creda, dottore, lei sarebbe felice se la sua vita finisse all’improvviso….”Non ti prepari, non spieghi, non ti scusi. All’improvviso te ne vai. E ti porti con te tutte le riflessioni e preoccupazioni per la tua stessa dipartita. La sofferenza che deriva dal sapere viene dopo che te ne sei andato, e tu non ne fai parte”….”Ci sarà molto improvviso, dottore, nei prossimi anni. Saranno anni lunghi, molto lunghi – non c’è dubbio. Ma passeranno, e a un certo punto finiranno. Allora mi deve dire perché è venuto a Sarobor, dottore, perché ha deciso di correre un rischio ogni minuto che è seduto qui, anche se sa che un giorno questa guerra finirà?”
“Questa guerra non finisce mai”, gli dico. “C’era quando ero bambino e ci sarà per i bambini dei miei figli. Sono venuto qui perché voglio ancora vederla Sarobor, prima che muoia, perché non voglio che se ne vada da me, come lei dice, all’improvviso”. (la traduzione è mia)

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