L’agente MormoraCaro Bersani, non pensare all’elefante!

Facciamo che io vi chiedo una cosa e voi provate a farla, anche solo per un attimo: ok? Non pensate all’elefante. Proprio così. Provateci: non pensate all’elefante. Impossibile, vero? Proprio non c...

Facciamo che io vi chiedo una cosa e voi provate a farla, anche solo per un attimo: ok? Non pensate all’elefante. Proprio così. Provateci: non pensate all’elefante. Impossibile, vero? Proprio non ce la fate, eppure è tutto quello che vi avevo chiesto: non pensare all’elefante. Voi cercate di ricacciarlo negli antri più reconditi della scatola cranica ed invece il pachiderma beffardo vi si para davanti. Hai voglia a non pensare all’elefante.

L’esperimento, che ha fondamenti scientifici seri e non è affatto prova del delirio che ci avvince, dimostra quanto sia energico il potere evocativo delle parole. L’ha ideato il linguista americano George Lakoff dell’Università di Berkeley, servendosi dell’immagine dell’elefante (che in Italia è il sigillo di Giuliano Ferrara, mentre negli States – come ben sapete – è il simbolo dei Repubblicani) per dimostrare l’importanza delle parole nella comunicazione politica e, soprattutto, per spiegare alla ‘sinistra’ americana come trasmettere i propri valori e progetti all’elettorato distratto, o poco attratto dai messaggi del partito dell’Asinello. Non c’era ancora stato Obama coi social network e la rivoluzione copernicana del marketing elettorale, ed i democratici a stelle e strisce se la passavano piuttosto male. Perdevano competizioni elettorali in continuazione e non riuscivano a convincere neppure la propria base elettorale, analogie a bizzeffe insomma. Era il 2004 ed alla Casa Bianca alloggiava Gerorge W. Bush, un figlio d’arte texano. Lakoff, con le sue ricerche, riuscì a chiarire l’importanza dei frame, le cornici che la nostra mente impiega per incasellare concetti appartenenti allo stesso campo semantico. Banalizzando, si sarebbe detto che i Democrats uscivano dai seggi con le ossa rotte perché non comunicavano o – peggio – perché per comunicare sceglievano il lessico dei propri avversari. La qual cosa aveva un effetto detonante, infatti i frames dei Repubblicani viaggiavano negli universi intellettivi degli elettori due volte, grazie all’inefficace contrattacco del partito progressista. Ed il messaggio più forte era, senza dubbio, l’originale.

È evidente che il segretario del Partito Democratico nostrano, Pigi Bersani, non abbia letto Lakoff, del resto neanche chi scrive: il libro è pressoché introvabile nella traduzione italiana per chi non frequenti un corso di Scienze della Comunicazione (ma fortunatamente le recensioni si sprecano e si segnala in rete un numero di Internazionale dedicato al tema). Il problema comunque non è Lakoff, è Bersani il problema. L’ex ministro ha oggi dichiarato: «la comunicazione sta alla politica come la finanza all’economia». Ora, di per sé la frase significa poco o nulla: immaginiamo si volesse additare la comunicazione quale perditempo ancillare, quale perversione barocca. Ad ogni modo, qualunque cosa la sentenza bersaniana voglia dire, tradisce una visione apocalittica di quel mestiere nobile e dannato che è la politica. Innanzitutto, temo verrà fuori un abecedario pleonastico di questo passo, la comunicazione non è la fabbrica dello slogan in rima baciata né la sintesi maldestra di concetti complicati. Per comunicare, sembrerà banale, ma bisogna avere qualcosa da dire. Il fatto che Bersani si glori di potersene impipare di quest’arte del dire le cose e farsi comprendere (e magari, absit iniuria verbis, farsi anche votare) la dice lunga sull’ineluttabilità delle ultime sconfitte collezionate in casa dem, e – si badi – tra i maggiori flop spicca quello di non riuscire a rappresentare, neppure in questo momento così buio per la Repubblica, un’alternativa credibile al sistema berlusconiano. Certi conti un leader tenace dovrebbe farseli. Se poi è costretto a confrontarsi col tizio che, almeno nel nostro Paese, ha reinventato e rivoluzionato la comunicazione politica: deve pur tentare di misurarsi ad armi non dico pari ma insomma…

Eppure la bordata inattesa, insperata ed inutile al felice connubio ‘politica – comunicazione’ è parsa, agli occhi dei dietrologi, una pernacchia al cospetto della kermesse messa in piedi dal sindaco Renzi la scorsa settimana. Ora, tentare di azzoppare il competitor screditando lo sport in cui costui sembra primeggiare è una debolezza di noi tutti, forse anche inconscia e comprensibile (fate un rapido esame di coscienza e scoprirete che Bersani è umano, troppo umano), tuttavia pontificare dal palco della manifestazione abbastanza riuscita del maggiore partito di opposizione tentando di convincere i propri militanti che “se non ci capite, è perché siam troppo bravi” non mi pare una strategia troppo azzeccata. Chiedete a Pisapia o a De Magistris o tanti altri cavalli di razza della sinistra italiana se comunicare sia una virtù schifosa, ché le elezioni – ultimamente sempre più – si vincono anche offrendo una «visione» al proprio elettorato ed ai cittadini in genere. Su twitter l’editorialista Dario Di Vico ha commentato: «Alla vigilia di una possibile caduta del Cav. un Togliatti odierno avrebbe rassicurato gli Italiani, avrebbe detto il Pd è la vostra casa. Invece di aprire agli Italiani “in camicia azzurra”, oggi si è polemizzato con i giornali e fischiato Renzi». Quel che è peggio, Bersani è persino riuscito a candidarsi alla marginalità politica o almeno ad un’improponibile successione a questo governo: e dire che di errori in queste settimane se ne erano fatti fin troppi. Da ultimi, l’assenza diplomatica alla manifestazione di Civati e Serracchiani a Bologna e la polemica tutta autoreferenziale col ‘giovane’ Renzi alla Leopolda: eppure da costoro – almeno quanto ad abilità comunicative – Bersani dovrebbe farsi dare ripetizioni. Avere ricette succulente e non far gustare agli ospiti le delizie di casa è un errore da scongiurare a forza.

Sempre che l’inconfessabile ambizione del maggior partito di opposizione, la casa in cui dialogano progressisti e moderati (ipse dixit), sia sempre quella di candidarsi alla guida del Paese. E, visto che c’è, vincere anche le elezioni: non sia mai possa ancora capitare. Si potrebbe cominciare col convincere – per ora a parole – gli Italiani, è un’idea: per carità, ma hai visto mai che sia quella vincente?

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