Per raccontare queste settimane dolci e concitate servirebbero retorica asciutta ed un narratore esterno, soprattutto. Accontentavi di tutt’altro, se vi va. Immagino capiti così anche con la macchina da presa, intendo: con quelle telecamerine che – ad esempio – i piloti professionisti si ritrovano incastonate nel casco. Da casa, uno vede solo: la strada, i paraurti e le scintille, non bada al tracciato e si scorda della corsa. Dev’essere necessariamente così quando in una pellicola sui tornanti della Storia ti tocca il ruolo di un personaggio (non protagonista, giammai, ma neanche comparsa: che orrore!) e, a raccontare la tua vicenda, ci pensa un regista con tanto di megafono intransigente. Insomma è tutto un problema di ‘prospettiva’, ecco come si dice: non mi veniva la parola. Se stai dentro la storia, provare a raccontarla è un’impresa titanica. Essere obbiettivi è chimera, un lavoro da trapezisti siberiani sul filo del rasoio.
Da quando il presidente dell’Università ha scelto di impegnarsi a fare il Presidente del Consiglio, abbiamo apprezzato lo sballottamento nell’occhio del ciclone (correndo con interesse lungo discese ardite e risalite della penisola politica e sfornando slogan manco fossero hashtag), abbiamo indossato i panni lindi dell’ospite televisivo fisso (in ossequio a quel concetto stronzissimo e tutto italico di rappresentazione del pubblico in sala secondo la ripartizione del manuale Cencelli, edizioni Dicotomia), abbiamo assistito con ansia alle minacce di aggressione di gruppuscoli d’insoddisfatti (indignandoci dell’indignazione ed inforcando sul web ora cautela da pompieri ora ardore da piromani). È dura da smaltire, la sbornia mediatica: te ne accorgi nel weekend. Il cerchio alla testa, il tanfo di miscela, la nausea senza senso. È dura da smaltire, la sbornia, se t’immagini di dover restare per un po’ sott’osservazione, quasi che il riscatto della Nazione fosse un lavoro di gruppo assegnato ai tanti bocconiani che crescono all’ombra di via Sarfatti. Come se le scale che portano in classe o i corridoi dei dipartimenti si fossero tramutati di colpo in qualcosa di vagamente affine ad una passerella collocata in un acquario. Una sensazione brutale per chi, di mestiere, gli è toccato di fare lo studente. Per scelta o vocazione, per parcheggio o ambizione: va da sé. Una rettifica va fatta, prepotentemente: dannati assertori della furia anti privilegi, ciò che anima le nostre aule è il merito. Siamo una scuola di Saperi, non un tempio al Petroldollaro.
S’è poi chiarito che il tifo per il presidente non era altro che un “urrà” per il futuro del Paese fermo al palo, che le pettorine dell’appartenenza servono solo a confondere le idee, che «rigore è quando arbitro fischia», che noi allievi dell’Atletica Bocconi non siamo una squadra iscritta al campionato ma ci piacerebbe essere della partita. (Il calcio non m’aggrada affatto, ma devo ammettere che – quanto a lessico immaginifico – si presta assai: che palle). La vicenda che più ha mobilitato le coscienze variegate degli studenti è stato il ventilato assalto all’Ateneo Commerciale nella giornata di giovedì scorso: ora, posto che “assediare” una comunità è rituale piuttosto tribale cui volentieri si rinuncerebbe, il dibattito in rete in strada in radio in classe in metro in mensa ha incassato l’adesione di una miriade di studenti. La voce sincera e biografica di Chiara, sul suo Diario di una bibliomane, ha spopolato: «La Bocconi non è il paradiso né l’inferno, ma è uno dei pochi luoghi in Italia che riesce a dare ai giovani l’orgoglio di un’identità». Che esista una fierezza, magari saggia magari rozza, non mi preoccupa. Se davvero esista un’‘identità bocconiana’ non sono in grado di dirlo, ed il fatto che la voce ‘identità’ sia egualmente declinabile anche al plurale mi consola tantissimo. La grammatica nostrana si fa beffa dei pregiudizi: ci sono identità, diverse reciproche contrarie complementari plurime. E meritano grande rispetto, voi non credete?