Il Summit Web 2.0 di San Francisco si è concluso da pochi giorni. Nel corso di un’intervista concessa a Erick Schonfeld, il direttore tecnico di Facebook, Bret Taylor, ha spiegato che le novità introdotte nella piattaforma negli ultimi mesi sono mirate a cercare l’equilibrio tra l’auto-espressione degli utenti e la condivisione dei contenuti. La musica che si sta ascoltando, il posto in cui ci si trova, i pensieri che si stanno inseguendo, le foto scattate con gli amici – tutto questo serve a mostrare agli altri la propria identità. Secondo Taylor la pubblicazione di questo materiale svolge la stessa funzione degli adesivi che ricoprivano il suo zaino quando era studente. Se non ci si confessa agli altri, qualcosa di importante viene sottratto alla personalità individuale, che rimane sfumata, indecisa, incompiuta. Facebook presta questo soccorso agli 800 milioni di utenti registrati.
Leibniz sosteneva che il fondamento del pensiero è la consapevolezza che una cosa non esiste, se non compare una ragione (una causa, una legittimazione, una giustificazione) che ne motivi l’esistenza. Il nulla è più forte dell’essere. Sembra che secondo Taylor la confessione su Facebook fornisca questa ratifica alla personalità degli individui; senza un simile riconoscimento la persona fisica può sopravvivere, ma la sua soggettività interiore non sarà che qualcosa di vacuo, privo di senso, abbandonato alla furia della depressione o del nichilismo. «“Ticker is like the next generation of presence. It is valuable because it is realtime—what are my friends up to right now.” They are listening to “Hot in Here” by Nelly, now get on with your life».
Ma Facebook esercita anche il potere di scegliere quali momenti della vita degli individui sono meritevoli della redenzione proveniente dal pubblico, e quali no. Il mestiere dell’algoritmo edge rank consiste nel selezionare i post che devono essere visualizzati dagli altri utenti sulla loro bacheca: il suo compito è quello di stabilire cosa può interessare a ciascun utente, e di proporgli solo i post degli amici che possano suscitare la sua attenzione. Le personalità su Facebook sfuggono ai morsi del Nulla quando riescono a convincere edge rank del valore insostituibile del contenuto appena pubblicato.
Il 26 settembre scorso Facebook ha rilasciato una dichiarazione in cui traspare l’intenzione di trasformare il suo potere metafisico in uno strumento politico. In una nota ufficiale descrive l’iniziativa con cui intende sostenere i candidati che programmano di agevolare l’espansione del mercato digitale. Per i politici la possibilità di raggiungere con i propri messaggi un pubblico ampio e interessato è una questione di sopravvivenza, non solo un modo di sperimentare le nuove vie dell’autostima o una forma eccentrica di gratificazione. Facebook è in grado di assicurare ai candidati disponibili all’accordo esattamente quello di cui hanno bisogno: la garanzia della preminenza, la certezza di apparire sulla bacheca di tutti coloro che hanno commesso l’imprudenza di mostrare il loro interesse almeno una volta.
Facebook non si occupa dello schieramento ideologico dei personaggi che sostiene: i contrasti tra repubblicani e democratici non la commuovono, né le parole d’ordine della destra o della sinistra. L’unica questione rilevante è il programma politico relativo alla pianificazione legislativa della Rete e alla regolamentazione dei dati per il mercato pubblicitario. Al contempo, anche l’accesso che i politici guadagnano alla quotidianità dei colloqui sulle bacheche di Facebook non è più mediata dal filtro dell’ideologia: è l’imposizione diretta dei temi e dei fatti rilevanti per il candidato nel focus di attenzione di ogni individuo con cui viene messo in contatto. Come sanno tutti gli studiosi di memetica, il vantaggio di questa situazione non è solo quello di occupare l’interesse della comunità con i propri argomenti – ma soprattutto quello di impedire ad altre questioni di conquistare il loro spazio nella coscienza degli interlocutori. La dimensione pubblica si appropria dello spazio privato, intercettando il tempo e il luogo della conversazione quotidiana, colonizzando l’ambiente delle relazioni personali, dell’intimità domestica, delle chiacchiere con i colleghi e con gli amici.
Lo stesso risultato emerge da una situazione rovesciata, che coinvolge questa volta il Senato americano e Google. Nella seduta del 21 settembre scorso la Judiciary Subcommittee on Antitrust, Competition Policy and Consumer Rights ha convocato Eric Schmidt per verificare se il più importante motore di ricerca del web obbedisce a qualche forma di pregiudizio nei giudizi di rilevanza dei risultati e se favorisce le sue proprietà a discapito di altre informazioni. Come qualunque altro dispositivo di information retrieval, anche Google incorpora una serie di pregiudizi nella valutazione della pertinenza delle pagine rispetto alle domande degli utenti. La formulazione della domanda è subdola perché è stata ideata dal senatore Franken, che ha lavorato con Google e che è tra i pochi politici che davvero conoscono il funzionamento dei motori. Lo scopo dell’interrogazione si trova tutta nel terzo punto dell’interrogazione: è possibile regolare in qualche modo le modifiche che Google apporta al suo algoritmo? Il senatore Franken propone che Google sottoponga all’approvazione del Senato ogni variazione che introduce nelle regole di ricerca e di classificazione dei risultati. I cambiamenti dell’algoritmo del motore infatti producono effetti di vasta portata su tutti i soggetti che traggono i loro profitti da attività di e-commerce. Le decisioni assunte da Google sul merito dei suoi criteri di giudizi di conseguenza non possono essere considerate un affare privato della società che amministra il motore, ma devono essere sottoposte a controllo pubblico. Almeno, questa è l’opinione del senatore Franken. Se questo accadesse in Italia, per sapere se su «economia» sia più autorevole la home page del Sole24Ore o l’articolo di Wikipedia, Google dovrebbe chiedere l’opinione del senatore Gasparri.
Schmidt ha spiegato al Senato che Google implementa in media due correzioni al giorno sul suo algoritmo, e che ogni modifica attraversa mesi di test, coinvolgendo anche numerosi campioni umani. Naturalmente chiunque di noi si sente tutelato dai soggetti arruolati da Google per le sue verifiche – anche in caso di performance di scarsissima intelligenza – molto più che dalle prestazioni di cui possono dare prova i senatori, americani o italiani che siano.
Ma il mio obiettivo è rilevare la questione di fondo in modo indipendente dalla buona o cattiva fede della classe politica. Nei due casi esaminati, da un lato una società privata si presta a funzionare come canale di comunicazione del potere pubblico, per assicurare un trattamento di favore alle proprie esigenze di business; dall’altra parte è il potere politico a voler rimodellare un software cui la comunità digitale ricorre un miliardo di volte al giorno per accedere ai contenuti internet – e che rappresenta il core business di un’impresa privata – secondo i propri disegni di opportunità pubblica. A questo si aggiunga il numero sempre crescente di richieste che i diversi governi del mondo rivolgono a Google affinché alcuni contenuti vengano rimossi dalle liste di risultati; nel report pubblicato il 25 ottobre, Google dichiara che il governo americano ha avanzato richieste su 11 mila account di utenti, quello italiano su oltre mille. Ma soprattutto si consideri che gli utenti stessi tendono a ricorrere solo in <misura molto marginale ai dispositivi che permetterebbero loro in qualche modo di tutelare la privacy dei dati personali, accettando con una strana miscela di incoscienza e di consapevolezza che queste informazioni siano utilizzate dai vari Google e Facebook in cambio dei servizi rilasciati. La legittimazione della propria personalità sulla bacheca di Facebook, la disponibilità immediata delle informazioni utili nei listati di Google, val bene qualche generalità data in pasto ai loro software di analisi.
Ciò che sta accadendo è una dissoluzione del confine tra diritto pubblico e diritto privato, con la conseguente estinzione dei principi che hanno permesso in passato di tracciare il perimetro della privacy. Google invoca la revisione di una legge che in America ha già 25 anni, e che regolamenta la gestione dei dati nel mondo digitale. Da noi una classe politica arrogante quanto ignorante pensa ancora al telefono e al formato cartaceo dei giornali come paradigma di definizione dei criteri legislativi. In realtà la crisi che occorre affrontare non è limitata all’anacronismo del testo di una legge, ma investe la definizione dei criteri stessi che dovrebbero separare il dominio privato da quello pubblico. I limiti tradizionali vengono di continuo scavalcati in tutte le direzioni, perché gli interessi quotidiani degli attori coinvolti (membri della comunità, politici, erogatori di servizi on-line) non possono più essere rappresentati nei termini del vecchio modello di diritto. Né si può affidare ai singoli individui il compito di comprendere le conseguenze delle loro decisioni sul modo in cui affrontano – e più spesso ignorano – la gestione della privacy.
Data la serietà della questione, e nonostante la sua urgenza, sarebbe già confortante immaginare che il governo attuale voglia risparmiarci su questo tema lo strazio dell’ennesima prova della sua inadeguatezza.