Quasi un secolo fa, ormai, la Russia pre e post rivoluzionaria si apprestava a divenire il grande cantiere della cultura d’avanguardia dove trovavano posto le idee, i progetti, i sogni e le illusioni più moderni del loro tempo. Ciò grazie al concorso di uomini eccezionali che, pur nelle loro diversità e spesso accese rivalità, erano tutti concordi nel perseguire un’unica grande causa ideale: la costruzione del futuro. Tuttavia, dall’interno di questa comunità elettiva, non tardarono a emergere singole personalità artistiche in grado di imprimere un segno radicale alla storia del Novecento.
Fa bene, dunque, la grande mostra romana a Palazzo delle Esposizioni, in corso fino al gennaio del 2012, a conferire un ruolo di maggior rilievo ad Aleksandr Rodčenko, una delle figure più autorevoli delle avanguardie storiche, e a canonizzarlo fra i maestri della fotografia contemporanea.
Per l’amico-collega di Vladimir Tatlin, padre fondatore del Costruttivismo russo, la fotografia non era semplicemernte una bella immagine ma una tecnica che, come la pittura, la grafica pubblicitaria, l’illustrazione editoriale, la scenografia e il design, doveva applicarsi all mondo quotidiano per provvedere al rinnovamento della società e al progresso storico.
Dopo il collasso dell’impero zarista e la sua ineluttabile deflagrazione per mezzo della bomba rivoluzionaria era giunto il momento di edificare un mondo nuovo, fondandolo su basi durature e progetti innovativi, ma non prima di aver dato alla popolazione civile, vera protagonista del cambiamento, la piena consapevolezza di ciò che stava accadendo. Lo spirito marxista, all’erta sui destini del paese, predicava l’etica per la trasformazione della realtà ma anche la “teoretica” per prenderne coscienza. E lo faceva in un contesto, diciamo così, governato dalla politica dell’urgenza: piazza pulita del vecchio, rapida eppure forzata crescita del nuovo. In tale scenario solo personalità fresche, robuste, dinamiche potevano ridare corrente al circuito della società. L’arte, senza dubbio, poteva proporsi come un ottimo “materiale conduttore”. Ma a quel tempo, era in una fase di inerzia, di stallo: scarica e impotente si stava spegnendo nei bui corridoi delle accademie. Rodchenko fu tra quelli che seppero ricaricarle le pile, aumentandone il voltaggio per farla fluire più velocemente e potentemente nei canali della comunicazione. Chiedo scusa per l’eccesso di metafore “elettriche”, ma Rodčenko fu l’inventore in Russia di una concezione dell’arte tecnologica e industrializzata proprio come la sognavano Marinetti e i Futuristi e grazie a queste peculiarità riuscì a farla diventare realmente “pubblica”, trasferendola nel linguaggio e nei rituali delle masse.
Bandite, allora, le consuetudini vetuste, rimossi i simbolismi logori e paludati, l’arte iniziò a penetrare nella pratica della vita quotidiana, a parlare all’individuo comune dei suoi problemi ordinari e, se volete, anche banali, facendoli vedere, però, come non erano mai stati visti prima. La gente imparò a conoscere e al tempo stesso colse l’occasione di partecipare e anche di decidere. Al servizio della collettività l’arte, diventata finalmente utile, tentò di determinare la qualità della vita.
Il cosiddetto “metodo rodčenko” moltiplicò in seguito la sua efficacia con l’introduzione della fotografia diretta. La macchina sostituì la vista e riconfigurò la visione delle cose. Quella portatile, tra l’altro, un utensile leggero, comodo e assolutamente maneggevole finì per scomparire andandosi a impiantare sulla pelle dell’individuo come una protesi artificiale. Un nuovo “cine-occhio” estremamente mobile e versatile con cui ridisegnare la realtà. Le composizioni asimmetriche, le linee di fuga diagonali vertiginose e acrobatiche, le inversioni dei punti di vista, l’impossibile “ripresa ombelicale” e gli sfocati progressivi, furono subito resi noti e disponibili, attraverso un sistema di informazioni molto funzionale, a tutti. Poiché l’opera di ricostruzione civile, sociale e culturale fu un compito collettivo.
L’arte e in particolar modo la fotografia, mezzo e mai fine in se stessa, usata per stimolare, risvegliare, rigenerare la percezione nonché la ricezione critica del “proletariato” negli anni trenta sarebbe diventata d’intralcio per la conservazione del regime. L’effetto “straniante” di novità inattesa, così provvido e salutare, era per sua stessa inclinazione tecnica e ideologica un processo senza fine. Era l’antidoto contro il rischio pernicioso dell’avvitamento e dell’involuzione di una realtà che tornava ad essere monolitica, scontata, predeterminata. Purtroppo questa vocazione libertaria e rinnovatrice il nuovo stato rigido e burocratizzato non poteva tollerarla, con le conseguenze che tutti quanti conosciamo. Rodčenko, boicottato e calunniato dal potere, fu allontanato dai centri mediatici della cultura e costretto a sperimentare in semi-clandestinità. Da una parte fu la sua fortuna perché si salvò dal precipizio nel vuoto della propaganda, ma dall’altra la sua condanna all’oblio. Negli ultimi anni si è fatto molto per riscattarne il valore e l’azione pionieristica e questa esibizione romana, proponendo al pubblico opere e progetti salvaguardate dal lavoro egregio dell’House of Photography di Mosca, aggiunge un tassello importante, forse un mattone solido su cui immaginare di costruire una nuova casa per il futuro.