Se ogni mattina il tuo primo pensiero al risveglio è studiare una strategia per arrivare a sera indenne, per non fare arrabbiare il tuo uomo, per non prendere botte e insulti, per non essere umiliata, allora sei una donna vittima di violenza domestica.
Se ogni mattina ti svegli e hai l’angoscia perché temi di preparare un caffè troppo caldo o troppo freddo, se hai paura di sollevare troppo lo sguardo quando vai in autobus, se hai il terrore di vestirti in un modo che a lui non va, se non vai più dal parrucchiere perché pensi che lui si infurierebbe con te, se prima di dire qualsiasi cosa valuti se questo potrà scatenare la sua rabbia, allora sei vittima di violenza domestica.
Se vedi che tuo figlio ti risponde con lo stesso disprezzo che usa suo padre nei tuoi confronti, allora sei vittima di violenza domestica, e probabilmente anche tuo figlio diventerà un adulto incapace di vivere una relazione di amore e rispetto con una donna.
Sono tante e terribili le storie raccontate in “Una su Tre”, il bellissimo documentario girato da Claudio Bozzatello sulla violenza contro le donne, proiettato venerdì scorso in un affollato cinema di Milano.
Si parla di donne che sono le tue amiche, le tue sorelle, le tue vicine di casa. Perché questo tipo di violenza non vive in realtà lontane, incivili, straniere, degradate, ma colpisce in modo trasversale donne (una su tre, appunto) e uomini di ogni livello sociale e culturale. Insegnanti e professionisti così come operai e muratori, laureati come analfabeti, italiani come stranieri.
E, come scenario complice e silenzioso, un contesto sociale dove nessuno vuole vedere, dove i condomini alzano il volume della tv per non sentire botte e urla, dove perfino tua madre o tua suocera non dicono niente e ti invitano a resistere in nome del matrimonio e dell’onore.
Tra una storia e l’altra (raccontate con grande efficacia da Ottavia Piccolo, Angela Finocchiaro, Debora Villa, Marina Rocco) la parola va a giudici, avvocati, operatori delle forze dell’ordine, assistenti sociali, psicologi e psichiatri, tutti impegnati ogni giorno ad affrontare situazioni da brividi che ruotano intorno alle violenze in famiglia.
Si accavallano una sull’altra riflessioni che dicono di una realtà complessa, che non si può liquidare come qualcosa di borderline, dove vittima e carnefice sono complici di un gioco al massacro, dove la violenza spesso è vissuta, paradossalmente, come gesto d’amore dalla donna stessa che la subisce, e dove le vittime del tutto innocenti sono i figli, destinati a rimettere in scena le stesse dinamiche, una volta diventati adulti.
E dove l’unica via d’uscita vera sarebbe quella di creare una fitta rete di ascolto e comprensione e assistenza intorno a queste donne umiliate, ma anche intorno a questi uomini, che sono malati, che possono e dovrebbero essere curati per uscire da una spirale di violenza che degrada loro almeno quanto la loro vittima.
È molto bello “Una su Tre” perché insegna anche la speranza, mostra che si può porre fine a un corto circuito sociale che ha radici lontane nel tempo, con responsabilità gravissime anche della Chiesa e della sua ideologia (a dirlo, nel fim, è un gesuita del Centro San Fedele, un giovane prete intelligente e illuminato, non un ateo comunista).
È un documentario importante, che dovrebbe essere trasmesso in televisione, anche in prima serata, perché è intelligente e delicato, e dovrebbe essere proiettato nelle scuole, a partire dalla terza media in poi, perché è parlandone che si lanciano messaggi fondamentali, che vadano a cambiare le cose.
È parlandone che insegni a una ragazzina – e a una donna – a non vergognarsi e a denunciare.
Ed è mostrando la brutalità dal di fuori che forse insegni a un ragazzino – e a un uomo – che non c’è alcuna giustificazione a un pugno, a un calcio e all’umiliazione di una donna.
“Tutti noi, uomini e donne, soldati e portatori di pace, cittadini e capi di stato abbiamo la responsabilità di portare il nostro contributo affinché la violenza contro le donne abbia fine. Le nazioni devono mantenere la promessa di prevenire la violenza, assicurare i persecutori alla giustizia e reinserire le vittime. E ognuno di noi deve parlare di questo problema all’interno della propria famiglia, del proprio luogo di lavoro e della propria comunità affinché questa violenza possa cessare”.
(UNSecretary-General BanKi-moon, International Day for the Elimination of Violence Against Women, 25.11.2008)