L’Italia è un paese vecchio, lento, pesante, fermo da troppi anni. Come scritto nel blog di Linkiesta “Non c’è crescita senza…”, negli anni ‘50 l’Italia cresceva a ritmi cinesi, negli anni ‘70 a ritmi tedeschi e negli ultimi vent’anni senza ritmo.
Questa è la nostra chiave di lettura: in Italia la pressione fiscale sui produttori di ricchezza ha raggiunto livelli stratosferici tanto da porla al 167° posto (su 183 Paesi misurati) della classifica 2011 redatta dal PWC.
Repubblica Democratica del Congo (183), Gambia (182), Unione delle Comore (180), Argentina (177), Repubblica di Palau (170), questi sono, a titolo di esempio, i pochi Paesi che riescono a far peggio si noi. L’indice di misurazione si chiama TTR (Total Tax Rate); è un indicatore che misura l’incidenza delle tasse e dei contributi sociali sul profitto commerciale. Si tratta, insomma, della pressione fiscale che grava sui produttori di ricchezza, cioè le aziende e le partite Iva, che in Italia si attesta al 68,6%, percentuale ampiamente superiore a tutti i nostri concorrenti commerciali.
La Germania è al 48,2% (128° posto), il Regno Unito al 37,3% (76° posto), la Francia con il 65,8% è il Paese europeo che viene subito dopo di noi, al 163° posto. Non c’è, insomma, nessun altro paese moderno e industrializzato che abbia un mix di tasse dirette e indirette e di oneri contributivi e previdenziali sull’impresa elevato come il nostro. E’ chiaro che ciò influenza direttamente e negativamente la competitività e quindi il tasso di crescita economica. Secondo le stime OCSE, inoltre, nel 2012 l’Italia sarà in recessione, attestandosi la crescita del Pil a un meno 0,5%.
Questi numeri dicono, più di ogni altra considerazione sul tasso di equità e/o di rigore della manovra del governo Monti, della sua gravissima insufficienza. Niente di nuovo sotto il sole: senza un poderoso taglio della spesa pubblica improduttiva ed un corrispondente alleggerimento del carico fiscale e contributivo sui produttori l’Italia non tornerà a crescere ed imboccherà la strada del declino. Ma i dati ci consentono qualche ulteriore considerazione.
La classifica di PWC ci mostra infatti altri due indicatori molto interessanti: la facilità nel pagare le tasse (calcolata sul numero di tasse e su modalità e frequenza con cui ne viene chiesto il pagamento) e il tempo necessario per pagare le imposte (l’indicatore misura il tempo necessario ore/anno per preparare, archiviare e pagare le tasse). L’Italia è rispettivamente al 128° e al 123° posto in questa speciale classifica. Peggio di noi in Europa c’è solo la Romania. Viene spontaneo pensare quanto il fardello della macchina amministrativa e burocratica abbia un peso decisivo nel contribuire alla crescita deficitaria del nostro Paese.
Anche su questo fronte è lecito attendersi interventi radicali di semplificazione che, al momento, non sono neanche annunciati. Pur rifiutando ogni eccessiva semplificazione del tipo – tasse = + crescita, possiamo sicuramente trarre qualche spunto interessante per riflettere sulla situazione italiana. Per tutti questi motivi siamo in recessione. Un’inversione di rotta è possibile se abbassiamo le tasse per le imprese e i lavoratori, se snelliamo la macchina amministrativa con tagli radicali alla spesa pubblica improduttiva, se l’obiettivo primario di ogni riforma diventa, prima di tutto, permettere al Paese di tornare a crescere.
Signor Rossi