Lunedì sera ho avuto il privilegio e la fortuna di incontrare e intrattenere una piccola conversazione in pubblico con Steve McCurry, il celebre fotoreporter dell’agenzia Magnum di passaggio a Bologna per presentare una lecture serale sul suo trentennale lavoro fotografico in giro per il mondo, prima di ripartire alla volta di Roma dove domani inaugurerà al Macro la sua ultima retrospettiva italiana. Certamente la fama e la notorietà dell’autore precedono di gran lunga le parole del sottoscritto, ma dopo aver fatto la sua conoscenza e aver approfondito il suo percorso poetico-fotografico, non potevo privare i lettori del blog di alcune riflessioni in merito.
Molti di voi conosceranno molto bene le splendide fotografie di McCurry, icone di un immaginario mass-mediatico senza tempo oppure avranno, almeno una volta nella vita, avuto occasione di sfogliare i suoi innumerevoli reportage di viaggio. Non spetta a me, quindi, fare le presentazioni. A me, in questo caso, importa solo mettere in evidenza come la sua fotografia, o meglio il suo modo di essere fotografo, ha avuto i tratti inconfondibili di una grande avventura esistenziale. Per tutta la vita egli ha saputo celebrare, con una partecipazione totale, due fra le virtù peculiari del reportage contemporaneo: l’eroismo e l’umanità.
McCurry ha dato prova della sua vocazione “cartier-bressoniana” fin dagli esordi. Fin da quel lontano 1978 quando è stato protagonista di un battesimo eroico: documentando, per primo tra gli europei, le fasi salienti della guerriglia fra i ribelli mujaheddin e le armate governative filo-sovietiche in territorio afgano. Questa volontà di azione e partecipazione, in seguito, l’ ha saputa esaudire instancabilmente sia in tempo di guerra (Afganistan, Ex-Jugoslavia, Iraq) che in tempo di pace (India, Tibet, Cambogia, Filippine, Yemen, Giappone, America latina ecc.).
Tuttavia il personaggio miticizzato del reporter d’assalto in voga negli anni cinquanta-sessanta-settanta ha saputo, diciamo così, normalizzare, renderlo più comune e confidenziale con l’intenzione di abbattere ogni barriera e ogni riserva che persone, situazioni, storie e culture molto diverse e lontane dalle abitudini occidentali potevano opporre al suo arrivo. Prima ancora di cogliere lo scatto eccezionale che gli avrebbe garantito successo e popolarità egli ha espresso come suo obiettivo prioritario la necessità di approssimarsi il più possibile alla vita della gente, fin quasi a confondersi in essa.
Certo, accorciare le distanze, sentire la storia umana pulsare dal vivo, nell’istante in cui “si spara” lo scatto fotografico, era stata da sempre la solenne liturgia del reportage fotografico. Ma quel rito metodico e solerte si era, in fine, consumato nell’estemporaneità di una missione esplorativa, di una cronaca giornalistica, di un redazionale illustrato da pubblicare quanto prima. I reporter potevano vantare capacità magistrali nelle “toccate e fughe”; in gesti che, sebbene la levatura morale e l’impegno politico-sociale, rimanevano atti furtivi, rapaci, dominati dal demone dell’ansia e della precarietà.
Steve McCurry, pur preferendo il sapore dell’istantanea, della trovata rapida e intuitiva, ha sempre posseduto un’andatura nell’insieme più cadenzata, un ritmo quasi buddista-zen, una forma silente di predisposizione alla pazienza con quella rara capacità di trasformare ogni incontro in una franca conversazione. «Se sai aspettare», dice McCurry, «la gente si dimenticherà la macchina, e manifesterà spontaneamente il suo stato d’animo più profondo». Non c’è più, dunque, la strategia della “rapina”, dell’ “istante decisivo”, ma un felice recupero della lentezza, di un progressivo schiudersi al mondo, di un dialogo basato sul sacro rispetto dell’interlocutore come in una sorta di scrittura etnografica. Fotografo e soggetto, allora, si posizionano sullo stesso piano, giocano a carte scoperte la stessa partita, sono trasparenti l’uno all’altro, si fondono l’uno nell’altro. È la conquista di momento aperto, senza difese né barriere, unguarded come recita il titolo di un suo fortunatissimo libro.
«La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità.»
I volti indimenticabili, struggenti ed attraenti cui non si può fare a meno di sentirsi vicini, di vedersi compagni, diventano nella memoria della fotografia luoghi d’elezione, in cui si condensano la storia, la cultura tradizionale e l’identità di un singolo individuo o di un intero popolo. E quello “straniero” (il lato originario del fotoreporter) in grado di sorprendersi ogni volta con maggior stupore davanti all’intensità della rivelazione dell’ “altro” smette all’improvviso di essere tale: impara a ridere e a soffrire, a piangere e a gioire come farebbe un vero, grande amico. Non pensa più alla partenza, ma già al ritorno. Ai tanti nuovi ritorni che, da lì in poi, non potranno più attendere.