“I banchi azzurri mi guardano. Mi gettano certe occhiate. Io conosco soltanto i banchi color legno, del mio paese, pieni di scritte che non bastavano mai a contenerci tutti. Chissà se un giorno potrò avere un amico con cui giocare. Sono così pochi i bambini qui. Questi banchi sono azzurri e non ci si può scrivere sopra. Sono lisci. Come tutto qui. Anche la faccia della maestra è liscia, sembra che il tempo non lasci segni né sui banchi né sulle facce. Sarà vero?
Non si vedono i muri di questa classe, ci sono foto, scritte, disegni, bambole e tante altre diavolerie che non si sa quale è il colore dei muri. Ci sono tante finestre, ma poca luce. Non si sentono gli uccelli cantare. Ogni tanto passa un treno e tutto trema.
Mio padre ieri ha detto: “Cerca di essere bravo, qui si devono fare tanti sacrifici. All’inizio non ho capito bene cosa intendeva dire, credevo che bisognasse sacrificare tanti montoni, come quando c’è la festa dell’Aid, per poter andare a scuola. Poi ho capito che in un paese ricco, non si può vivere da poveri. Chissà se devo fare anch’io dei sacrifici.
Oggi la maestra mi ha detto: “Quando parli alle persone le devi guardare negli occhi”, ma a me la nonna ha sempre insegnato di non guardare le persone in faccia: “Solo gli animali si guardano negli occhi” mi diceva.
Per aiutarmi a guardare le persone negli occhi, da una settimana si siede a fianco a me Ahmed, anche lui è del mio paese. Quando si è presentato e ha parlato con me nella mia lingua mi è sembrato così strano quel suono che quasi non capivo cosa dicesse. Mi ha detto “Non ti preoccupare imparerai in fretta l’italiano” ma quando l’ho sentito parlare questa lingua mi sono preoccupato subito, perché io la lingua la conosco nella mia testa e ho capito subito che lui la parla malissimo. Chissà perché non mi mettono vicino un bambino italiano così imparo da lui. Io l’italiano lo so benissimo. Ma solo nella mia testa.”
Questo breve ma intenso racconto di uno scrittore algerino naturalizzato italiano di nome Tahar Lamri può assurgere a emblema della condizione materiale e psicologica di tanti bambini figli di migranti di tutte le nazionalità che si trovano ad iniziare una nuova vita con le loro famiglie nel nostro paese. Non sembri retorico, ma per un bambino, molto più che per un adulto, lo sguardo, le parole, l’approccio dell’altro, rappresentano un aspetto importante, direi quasi decisivo, sull’atteggiamento e il modo di pensare e di agire che egli avrà nel rapportarsi con il nuovo ambiente con cui è entrato, forzatamente e non per libera scelta, in contatto. Sarà alla base del comportamento che il futuro adulto avrà nei confronti delle regole e delle usanze del paese che lo accoglie. Ovviamente, non è solo questione di approccio psicologico, ma, anche e soprattutto, di leggi.
La questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri è un tema molto discusso ma che è rimasto finora sempre nel limbo delle buone intenzioni. Come ha fatto notare, recentemente, il nuovo ministro alla Cooperazione Internazionale Riccardi, senza questi bambini il nostro paese sarebbe decisamente più vecchio e avrebbe minore capacità di sviluppo. Infatti, secondo uno studio di Caritas-Migrantes del 2010, in Italia ben 1 bambino su 5 è figlio di migranti. Più in generale esistono due sistemi di trasmissione della cittadinanza alla nascita, lo “ius sanguinis” e lo “ius soli”, il primo che si ottiene sulla base del “sangue”, cioè per discendenza dai genitori (Italia, Germania e altri paesi europei), il secondo che che si acquisisce sulla base del territorio e indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori (Usa, Brasile, Canada, etc.). In particolare in Italia, come accade su altri versanti dei diritti civili, le norme sono particolarmente ristrette rispetto agli altri stessi paesi europei. Da noi i figli di immigrati possono ottenere la cittadinanza al superamento della maggiore età e solo se i loro genitori hanno avuto almeno 10 anni di residenza ufficiale e legale nel nostro paese (in Germania 8, in Irlanda 3, in Belgio alla maggiore età senza altri requisiti, in Francia tutti a prescindere a partire dal 13o anno di età se lo chiede il genitore, dal 16o anno se lo chiede il ragazzo).
Ma non c’è, con tutta evidenza, solo il problema della cittadinanza. Come è stato chiesto in occasione di un importante convegno dal titolo “Bambini e migrazioni”, organizzato da Simm e Glnbi, tutti i minori stranieri dovrebbero poter accedere al servizio sanitario nazionale, e cioè alla possibilità di avere un pediatra e un medico generico, secondo quanto previsto dall’art. 24 della Convenzione di New York e dall’art. 2 della Costituzione italiana. In realtà, secondo i più recenti dati, almeno 1 migrante su 3 non possiede la tessera sanitaria. Inoltre, attualmente, viene rilasciato al migrante un permesso di soggiorno per tutta la durata della gravidanza e per 6 mesi dopo il parto, dopodiché, però, scatta l’espulsione della madre e del bambino. Per timore dell’espulsione, spesso accade che le madri preferiscono non richiedere il permesso che equivarrebbe ad una auto denuncia di irregolarità, oppure si vedono costrette a partorire senza l’ausilio dei medici. Si dovrebbe, pertanto, estendere il permesso almeno a 12 mesi, dando la possibilità di trasformarlo successivamente in permesso di lavoro, a tutela della salute del neonato.
Proprio come ci ricorda con delicatezza ed eleganza il passo del racconto appare, inoltre, urgentemente necessaria una revisione profonda della legislazione sul diritto allo studio dei minori figli di immigrati: per molte amministrazioni comunali e istituzioni scolastiche negare loro questo diritto è diventata una prassi, talvolta mascherata, altre volte addirittura esibita. In un recente passato, nel comune di Roma, all’Istituto Margherita, è stato chiesto, attraverso un apposito modulo, l’obbligo di possesso del permesso di soggiorno per l’iscrizione alle classe dell’infanzia. Lo stesso è accaduto in alcuni istituti scolastici del comune di Torino. Ma più ancora della legislazione conta la cultura dell’accoglienza e dell’integrazione da parte dei genitori e degli insegnanti italiani nei confronti di questa enorme risorsa, non solo culturale ma anche economica, del nostro paese in un mondo sempre più globale, cioè a dire i bambini immigrati.