Già più volte, il presidente del Consiglio Monti ha indicato l’urgenza di investire e agire sul miglioramento del capitale umano italiano. L’urgenza appare evidente se si guardano i dati che indicano una significativa inferiorità formativa dell’Italia nel contesto del paesi dell’Ocse. Ma di cosa parla Monti quando parla di capitale umano? cosa si intende per “capitale umano”?
Secondo Gary Becker, economista dell’Università di Chicago e Nobel per l’Economia, è un patrimonio di informazioni, conoscenze, competenze e abitudini. Finanza e tecnologia sono importanti, dunque, ma non esiste sviluppo economico se un Paese “non investe in conoscenza e in formazione”. Becker docet.
Perché? Perché oggi più che mai si aprono e si dilatano enormemente i confini del mercato, del fare impresa e del lavoro, come di ogni altro sistema economico-sociale. Uno scenario che richiede cultura diffusa, multidisciplinare e poli-tecnica, attenta al saper essere oltre che al saper fare. Che richiede di andare oltre gli steccati nella la logica dell’e/e, piuttosto che del più miope o (impresa, tecnologia, economia, produttività ecc.) /o (cultura). Perché cultura, nonostante le molte facce, gli ambiti disciplinari e applicativi, è tutto ciò che ha a che fare con quel patrimonio sociale che comprende conoscenze, valori, sensibilità e non di meno le disposizioni all’azione (anche economica e imprenditoriale) che da tutti questi derivano. E perché tanto più un Paese cresce nel campo della tecnologia, dell’informazione e della conoscenza quanto maggiormente deve progredire sul terreno “umanistico” per poter maneggiare, interpretare, utilizzare la complessità dell’innovazione.
È così lineare, dunque? Più investimenti all’area del capitale umano vuol dire più crescita? Sì, anche se con molte trappole e sfide.
Se infatti possiamo dare per garantito che cultura, educazione e formazione contribuiscano alla crescita, non si può negare che così anche altri fattori (infrastrutture, normative, salute ecc.). Come è altrettanto innegabile che nella determinazione del valore attribuito al capitale umano ci si muove in una dimensione prospettica, di non certo facile misurazione. Per esempio, misurare eccellenze e inferiorità formative (cosa che fanno i dati Ocse) presenta delle ambiguità nei metodi e nei risultati (per cui l’Estonia è al vertice mondiale, mentre la Francia sotto la media): dunque, come confrontare titoli di studio inconfrontabili per i differenti contenuti della formazione? Nel territorio del capitale umano c’è da dubitare che le tabelle statistiche siano perciò lo strumento più consono, detto questo però non bisogna cadere nella solita trappola di assegnare un valore arbitrario e tralasciabile a tutto ciò che non può essere facilmente misurato. E neanche nel trappolone delle troppo usuali considerazioni che la formazione culturale sia perdita di tempo, che la scuola debba soltanto formare forza-lavoro per le aziende, che la scienza non serva alla tecnologia e che tutto ciò che è «umanistico» è chiacchiera inutile (e non commestibile).
Altro quesito: chi ha il ruolo chiave nello sviluppo del capitale umano di un Paese? Scuola e Università sono sorgenti primarie della cultura, ma la partita per la conoscenza per il futuro sviluppo economico si gioca anche su altri tavoli. Politica e istituzioni devono rispondere alla necessità di un progetto culturale, per il sociale e per le imprese. E le imprese non hanno un ruolo da meno nello sviluppo della formazione professionale e manageriale. Area che risulta quantomai critica secondo i dati forniti da Cedefop (Centro europeo per lo sviluppo professionale) secondo i quali in Italia la forza lavoro dispone di un livello di qualificazione significativamente più basso rispetto alla media europea.
Inoltre, con tanti attori coinvolti, politica, scuola, università, sociale e imprese, un’altra criticità può nascere dall’interpretazione che si dà al termine “capitale umano”. Per analogia con la terminologia economica che identifica le risorse economiche a disposizione di una data impresa, il capitale umano viene spesso incluso, in contesti di impresa e di lavoro, nelle risorse economiche, insieme all’ambiente e al capitale fisico. L’idea di investire in capitale umano, da parte di un’impresa individuale o come azione politica di governo, allo scopo di creare risorse produttive pronte all’uso è però offensivo nei confronti di ogni nozione di persona. Oltre che riduttivo, perché ignora la realtà dei fattori con cui la conoscenza del capitale umano si combina per poter venire utilizzata. Le persone possono anche disporre di eccellenti conoscenze e competenze ma non avere la motivazione di farne uso, o non essere messe nella condizione. Perché il capitale umano è fonte di valore economico, ma sempre in relazione alle modalità qualitative di impiego.”Risorsa” dai contenuti contabili ma non di meno strategici, che però raramente viene coinvolta nell’implementazione dei sistemi di controllo interno, con il decentramento delle responsabilità o lo sviluppo di autonomia operativa.
Quindi, oltre a misurare il grado di istruzione, formazione e cultura, bisognerebbe misurare (e occuparsi di) le condizioni in cui queste possano essere riconosciute, valorizzate, messe in pratica. Azioni spesso impedite da difesa dello status quo, resistenza al cambiamento, ipermanagerializzazione e veti intergenerazionali o parrocchiali.
12 Gennaio 2012