Sono tempi duri per il rapporto tra lega e PDL. Dieci anni di alleanza organica si sono ufficialmente chiusi con la nascita del Governo Monti. Una rottura che ha portato la Lega all’opposizione, alla ricerca di una strategia politica capace di superare il magrissimo risultato politico rispetto all’elettorato nordista, tratto dalla liaison dangereuse con Berlusconi. Per intenderci, a un gretto osservatore appare che, a oggi, l’unica forma compiuta di federalismo fiscale sia l’autonomia finanziaria concessa a Roma Capitale.
Bandiere della Lega Nord
La solitudine della Lega (interrotta a tratti da voti ad alto tasso di controversia, come quello su Cosentino) spinge il suo gruppo dirigente a cercare di “rifarsi una verginità” attraverso un’opposizione frontale al Governo Monti. E qui arriviamo a sabato scorso in piazza del Duomo: se il PdL appoggia il governo Monti, la Lega affonda la giunta Formigoni, tanto più alla luce del recente accerchiamento da parte di alcune Procure. Questo il messaggio di Bossi all’ex alleato Berlusconi.
Qualcuno ha ricordato come la Lega non possa permettersi di perdere il potere che solo la presenza determinante al governo della Regione Lombardia è in grado di garantirle. Altri hanno ricordato come il PdL possa, specularmente, far cadere le giunte a guida leghista di Piemonte e Veneto. Altri ancora hanno letto il passaggio come un necessario prezzo pagato alla piazza per placare i malumori per le inchieste che stanno riguardando l’entourage formigoniano. Infine, alcuni vi hanno letto un cedimento alla linea maroniana di contrapposizione diretta con il PdL, per saccheggiarne l’ampio bacino elettorale al Nord in un momento in cui il partito di Berlusconi regista più di una difficoltà.
Difficile dire quale interpretazione possa essere quella più veritiera. Ciò che pare certo è che l’ipotesi di una Lega in grado sovvertire gli equilibri con il PdL nelle regioni del Nord (se non proprio di “ballare da sola”), poggia su basi tutt’altro che fragili. Per diverse ragioni.
C’è confusione sotto il cielo e disparati sondaggi presentano ancora più disparate fotografie degli orientamenti politici. Ma partendo dall’ultimo dato storico disponibile – le Regionali del 2010 – vediamo come la Lega in Lombardia abbia raccolto solo 5,6 punti in meno del PdL (26,2% contro 31,8%). Di fronte a un partito in forte difficoltà, con la stella di Berlusconi in apparente declino, l’agognato sorpasso della Lega ai danni del PdL appare a portata di mano. D’altra parte non costituirebbe neppure una novità dopo l’affermazione del Carroccio in Veneto con il 35,1% dei voti a fronte del 24,7% del PdL alle regionali 2010.
Questo, per inciso, è anche il motivo per cui sembra molto difficile che il PdL possa compiere, nel caso, una “rappresaglia” colpendo Luca Zaia. Il Presidente della Regione Veneto è stato eletto con oltre il 60% dei voti e continua a rimanere uno dei presidenti più apprezzati dai propri cittadini. Vista l’inconsistenza del centrosinistra veneto (29,3% il valore dell’intera coalizione), una sua “destituzione” per mano del PdL rischierebbe di essere la migliore premessa per una sua rielezione, chiaramente alla guida di un monocolore verde.
Opposto il quadro in Piemonte, dove la caduta di Roberto Cota segnerebbe quasi certamente il ritorno a una maggioranza di centrosinistra. Ma perdere un governo di coalizione in Piemonte per guadagnarne uno monocolore in Veneto, se non addirittura anche in Lombardia, sarebbe uno splendido affare per la Lega. L’affare della vita.
In questo scenario, la legge elettorale regionale gioca un ruolo di forte sostegno alle ipotetiche ambizioni solitarie di un partito grande abbastanza da guadagnare più consensi dei suoi oppositori. Va il ricordato che chiunque prenda un solo voto in più degli avversari – siano essi partiti o coalizioni – si assicura, ipso facto, il 55% del Consiglio Regionale. Se la Lega avesse una ragionevole certezza di conquistare il primato elettorale in Lombardia con percentuali non molto dissimili da quelle registrate in Veneto nel 2010, potrebbe legittimamente aspirare a giocarsi la partita. In tal caso, paradossalmente, la vittoria dipenderebbe più dalle debolezze degli avversari che non dal risultato del Carroccio in sé. Posto che in Lombardia l’intera coalizione di centrosinistra ha preso il 33,3% dei voti e che l’Udc sia rimasta inchiodata al 3,8%, la scommessa non sembra poi così azzardata. E il PD, analogamente al PdL, alle sue tradizionali fratture interne aggiunge anche l’indebolimento seguito al “caso Penati”.
Naturalmente dopo le regionali è già successo di tutto: dalla vittoria di Pisapia con il PD quasi al 30% a Milano e con successivo inglobamento di Bruno Tabacci (nonostante il Terzo Polo che debutta con un miserrimo 2,7%) ai pessimi risultati delle altre amministrative 2011 per Lega e PdL, fino alla caduta di Berlusconi. Una lotta a tre in Lombardia tra un centrosinistra/terzopolo che riesca miracolosamente a tenere unita la pletora di partiti che ne fanno parte, un PdL indebolito ma non spacciato e Lega in solitaria, con 5 Stelle che rubano voti a tutto e l’incognita dell’astensionismo, avrebbe comunque un esito completamente aperto. Il tipo di rischio che non piace ai politici e che potrebbe invece portare a improvvisi riavvicinamenti. Le amministrative del 6 maggio serviranno probabilmente anche come indicazione sul da farsi.
D’altra parte, a meno di operazioni di coalizioni “nazionali” à la Monti (Tabacci?), tanto il PD quanto il PdL e l’UdC scontano inevitabilmente il peso dell’appoggio al governo Monti e a provvedimenti che – come dimostra l’ondata di conflitti che sta montando in queste settimane – sono senz’altro una leva formidabile per chi voglia raccogliere consensi, tanto più utilizzando la ricetta fatta di propaganda elettorale e populismo, ricetta in cui la Lega è regina incontrastata. Aumentare l’Irpef, l’Iva, i pedaggi autostradali, il gas e l’elettricità, ridurre le pensioni, i trasferimenti alle regioni e agli enti locali, destabilizzare settori non propriamente strategici come quello del servizio taxi, delle farmacie, della vendita di giornali o dei piccoli esercizi commerciali, l’accanimento fiscale con i piccoli evasori e il patteggiamento con quelli grandissimi, magari mettere mano all’articolo 18 e, naturalmente, non toccare né le fonti di sistematiche tosature di clienti e cittadini come le assicurazioni RC auto o i servizi bancari, né gli enormi sprechi presenti soprattutto in certe amministrazioni del Sud, non sono esattamente scelte capaci di guadagnarsi il consenso dei ceti produttivi del Nord cui la Lega storicamente si rivolge.
L’effettiva praticabilità dell’ipotesi di un monocolore verde in Lombardia risiede però nella capacità della Lega di far percepire agli elettori il partito del 2012 come soggetto nuovo, diverso della Lega colonna portante del governo Berlusconi.
Ma se la scommessa della Lega non è necessariamente un bluff, né oggettivamente un puro azzardo, la posta in gioco vale certamente la candela. Lombardia e Veneto sono le uniche due regioni in cui al referendum costituzionale sulla devolution del 2006 hanno vinto i Sì. Insieme, le due regioni rappresentano 1/4 della popolazione italiana e circa 1/3 del PIL, un’entità, dal punto di vista demografico ed economico, più o meno delle dimensioni dell’Olanda (nono paese sui 27 dell’Unione Europea per popolazione e sesto per PIL). Ma, soprattutto in ottica federalista, sono le due regioni che – persino nei calcoli più prudenti sul “residuo fiscale” come quelli adottati da Luca Ricolfi – versano più risorse di ogni altra in “solidarietà nazionale”. Così tanto che lo stesso Ricofli, che leghista certamente non è, non ha avuto alcuna remora a definirlo un vero e proprio saccheggio (“Il sacco del Nord”).
Conquistare da sola il governo di queste due Regioni significa per la Lega poter porre – con una forza negoziale infinitamente più alta di quella esercitabile stando in governi nazionali di coalizione – la questione fondamentale dell’enorme disequilibrio territoriale nella raccolta e nella redistribuzione delle risorse pubbliche in Italia. La ragione stessa per la quale la Lega è nata. Ed è per questo motivo che – se mai questa fosse la scelta dei vertici del partito – con tutta probabilità le forze di contrasto messe in campo dai soggetti che hanno un interesse al mantenimento dello staus quo, sarebbero straordinarie. Utilizzando le categorie rappresentate nel nostro libro “Luigini contro Contadini”, possiamo dire che tali soggetti sono: i “Luigini”, principali azionisti del nuovo governo; il “Palazzo” benché stretto nella vulgata populista anti-casta; gli “Assititi”, come beneficiari di tanti degli sprechi che nessun governo riesce a intaccare; e naturalmente le Mafie che sembrano uscite definitivamente dall’attenzione tanto dei governi quanto dei media (nonostante la loro formidabile forza, come ci segnala da ultimo l’ottimo rapporto di SOS Impresa – Confesercenti).
In questo scenario c’è solo un unico, vero, busillis: la Lega può vincere la sua scommessa solo se riesce a intercettare una percentuale non trascurabile dell’elettorato PdL e soprattutto se sceglie di candidare in Lombardia un uomo davvero appetibile per un elettorato più ampio di quello, già forte, che l’ha sostenuta alle regionali lombarde del 2010. Quel candidato, ragionevolmente, è Roberto Maroni. Ma su questa scelta da parte dei vertici della Lega e dello stesso Maroni, viste le faide interne, è invece più difficile scommettere con buone probabilità di successo.
Gabrio Casati