Il recente rapporto OCSE Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising posiziona l’Italia tra i Paesi membri con la maggior disuguaglianza dei redditi da lavoro. Lo studio sottolinea che “la disuguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi OCSE” e che “nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49.300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4.877 euro)”. Dal 1980 al 2008 l’1% più ricco dei lavoratori italiani ha aumentato la proporzione del proprio reddito rispetto al reddito totale dal 7 al 10%.
L’aumento della disuguaglianza è un fenomeno tanto italiano quanto globale e certamente da non sottovalutare. L’economista indiano Amartya Sen ci insegna che il divario economico all’interno di una comunità diviene un problema sociale allorquando emerge, all’interno della stessa, la percezione di repentine disparità nelle condizioni di vita.
Moises Naim racconta di come gli statunitensi stiano iniziando a percepire la disparità tra manager ed operaio come mai prima d’ora. Il “Povery Tour” organizzato dal Professor Wallace West, docente di Princeton ed eclettico intellettuale statunitense, intende sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense sul fatto che la povertà è un problema evidente negli States (secondo lo US Census Bureau sono oltre 46 milioni gli statunitensi poveri) che le forze politiche non intendono affrontare seriamente.
La disuguaglianza tocca da vicino anche i due giganti economici asiatici, Cina e India, le quali dall’inizio degli anni Novanta sperimentano un incremento progressivo di divario economico di redditi da lavoro, sia all’interno dei centri urbani che nelle zone rurali. Se in Cina uno dei fattori responsabili della disuguaglianza risiede nel sistema politico autoritario, che crea “fratture sociali” ed impedisce sostanzialmente alla popolazione di esprimere le proprie istanze, in India invece persistono problematiche legate a discriminazioni su base culturale. Il rapporto OCSE segnala come la disuguaglianza economica sia in crescia dal 2003 anche in Giappone, tradizionalmente uno dei Paesi più egualitari della regione.
Nella regione del Medio Oriente e del Maghreb abbiamo dei dati che risultano essere leggermente diversi rispetto a quelli che sono i trend internazionali. L’ultimo rapporto dell’UNDP circa lo sviluppo nel mondo arabo, Arab Human Development Report 2009, ci parla di una disuguaglianza di reddito tutto sommato contenuta. Chiaramente vi sono delle sostanziali differenze tra due categorie principali di attori: quelli ricchi di risorse e quelli che non hanno petrolio e gas nel proprio sottosuolo.
Come noto, il meccanismo che si innesca nei cosiddetti Rentier States – vale a dire quei Paesi che basano il proprio sviluppo economico in maniera quasi del tutto esclusiva sui proventi delle esportazioni di idrocarburi – permette allo Stato di redistribuire una quantità tale di ricchezza (anche attraverso servizi sociali e sussidi) da far sì che i cittadini possano vivere non in condizioni di povertà, anche se tutto ciò va a discapito di maggiori libertà civili e politiche. In questi Paesi, soprattutto nel Golfo, la vera disuguaglianza che sta emergendo è quella tra cittadini ed emigrati (provenienti soprattutto dall’Asia meridionale e da altri Paesi arabi come l’Iraq o l’Egitto), che di fatto sostengono la crescita economica di tali attori, grazie alla forza lavoro che prestano, ma non godono degli stessi diritti, in quanto privi di cittadinanza.
Ciò detto, la vera questione che interessa il mondo arabo, soprattutto nel Maghreb e in alcuni Paesi come la Giordania e l’Iraq, risulta essere l’altissimo tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, come si evince anche dal MENA Equilibri Stability Index. Tale dato è ancora più preoccupante per una realtà come l’Algeria, ricca di gas e petrolio e non in grado di sfruttare appieno la propria forza lavoro. Sarà su questi aspetti di tipo strutturale che i Paesi arabi dovranno lavorare, sia per evitare nuovi moti di rivolta, che per dare credito ai nuovi governo che agiranno in realtà come la Tunisia, l’Egitto e la Liba, già interessati da un cambio di regime provocato anche dalla situazione economica.
Emanuele Schibotto, Responsabile Desk Asia e Pacifico, Equilibri.net
Stefano Torelli, Responsabile Desk Medio Oriente e Maghreb, Equilibri.net