Gabrio CasatiLa crisi europea ci dice che abbiamo bisogno di veri politici e non di tecnici

Spread, EFSF, ESM, PSI, PSI+, zero coupon swaps, shorting etc. Sembra di essere tornati alla messa in latino, tutti parlano, pochissimi capiscono. Sintomo certamente del vergognoso analfabetismo fi...

Spread, EFSF, ESM, PSI, PSI+, zero coupon swaps, shorting etc. Sembra di essere tornati alla messa in latino, tutti parlano, pochissimi capiscono. Sintomo certamente del vergognoso analfabetismo finanziario dei popoli, come sempre funzionale alla perpetuazione di un potere castale in mano ai pochi, ma sintomo anche che qualcosa di profondo si è rotto nelle società occidentali. E questo qualcosa ci sembra essere il normale esercizio della dialettica (anche aspra, anche dura) delle forze organizzate. Mentre i mercati “votano” (Votano?!!!), “hanno paura”, “sono nervosi”, “chiedono sacrifici” (come dei pre-greci, attendono nel buio della foresta il loro tributo di carne umana); mentre una tecnica assolutizzata impone soluzioni in assenza di confronto, perché “è così che si deve fare”; mentre milioni di cittadini vengono esclusi dalle scelte essenziali per la loro esistenza; in questo mentre, nella più completa afasia della politica e del sociale, l’unica certezza che pare confortarci è quella sulle dimensioni reali del gioco. Le forze che si stanno dispiegando nel quotidiano delle nostre vite originano da distanze lunghe, nascono in luoghi non fisici, sono il risultato di serie infinite di ordini di acquisto e di vendita, file ininterrotte di contratti. Il tutto si sviluppa in una dimensione talmente allargata da dover richiedere soluzioni su un campo molto più esteso di quello nazionale, se non globale, quantomeno continentale.

Mario Monti parla dell’andamento dello spread durante la conferenza stampa di fine anno

Ma quando guardiamo all’Europa, a quella parte del continente europeo che dal Dopoguerra ha cercato di darsi strutture istituzionali e processi decisionali che disponessero di un minimo di cogenza, guardiamo innanzitutto a Berlino. Dunque partiamo da alcuni dati, così come cristallizzati nelle analisi più attente della stampa internazionale (e de Linkiesta):

  • 1. Lo straordinario successo economico tedesco è frutto (oltre che della qualità delle imprese e dei lavoratori tedeschi, nonché di un livello di civiltà mediamente incomparabile con il resto del Continente) del combinato disposto di due elementi: la moderazione salariale degli ultimi 10 anni (stagnazione o quasi del salario medio a fronte di massicci aumenti di produttività) e benefici della moneta unica (capacità di beneficiare di un tasso di cambio reale svalutato nei confronti dei principali concorrenti europei – Francia e Italia)
  • 2. La Germania si è trasformata in una straordinaria macchina industriale e nella seconda potenza esportatrice del mondo, accumulando imponenti avanzi della bilancia dei pagamenti. Tali avanzi, a causa della politica deflattiva interna, alla moderazione salariale e al consolidamento fiscale, hanno finanziato, in un circolo molto cinese, le bolle immobiliari e finanziarie della periferia europea: Grecia (dove s’è aggiunta la specifica di un imbroglio sui conti pubblici), Spagna, Irlanda, Portogallo.
  • 3. Ogni piano di salvataggio della moneta unica deve necessariamente risolvere questo squilibrio delle partite correnti, dell’economia reale. Perché è da qui – o meglio, dalla brusca interruzione, a seguito della crisi del 2008, del flusso di euro tedeschi via investimenti e prestiti bancari verso la periferia europea – che parte la dinamica fondamentale che sta mettendo in forse la sopravvivenze della moneta unica. Ed ecco perché, a tacer d’altro, salvare l’euro si sta rivelando così difficile per i tedeschi: ogni intervento di struttura richiede necessariamente una modifica dell’essenza del loro modello di sviluppo. Meno investimenti, più consumi, meno export più domanda interna (e, di riflesso, si spera anche europea).

Questo dice l’analisi: fate quello che volete, ma senza un’espansione della domanda tedesca, un aumento dell’inflazione e un meccanismo permanente di trasferimenti dal centro alla periferia l’euro non può sopravvivere. Ecco allora l’esplosione del dibattito sul come fare, sulle implicazioni teoriche e gli effetti pratici di una politica fiscale espansiva in Germania, sulle conseguenze finanziarie, gli impatti inflattivi, l’apprezzamento dei bund…

È qui – nel dominio dell’economico e del sistemico nel discorso pubblico – che si riscontra quella rottura profonda dell’anima lunga dell’occidente europeo cui abbiamo accennato all’inizio di questo articolo: perché un’intera collettività si deve porre, per forza e tutta insieme, dalla parte dell’”equilibrio di sistema”? Perché i cambiamenti devono essere predisposti dall’autorità insindacabile della tecnica e non tornare a essere, come sempre sono stati, il risultato di un’alterazione nei rapporti di forza? In altre parole, e in questa precisa situazione: dove è finito il sindacato tedesco? Qui si sta dicendo che sarà necessario adottare politiche fiscali espansive in Germania per salvare l’euro, ma non sarebbe più facile, più fisiologico, ordinario e forse salutare, che quella espansione fosse attuata a seguito dell’azione politica del sindacato dei metalmeccanici della Repubblica Federale?

Dopo 10 anni di moderazione salariale e di esplosione dei profitti di impresa l’IG Metall pretende, a nome e per conto dei suoi iscritti, un aumento salariale del 25% in 5 anni. La controparte non accetta, IG Metall dichiara scioperi e blocchi della produzione, il Governo media e si chiude a un valore intermedio tra il nulla e quel 25%. Ed ecco allora l’espansione fiscale sotto forma di aumento salariale. Ecco che la necessità di ri-imparare il latino per cantare una messa che tanto non capiremo mai fino in fondo, si ridimensiona. Infondo, io penso solo a quello che interessa a me, perseguo legittimamente solo i miei interessi o quelli del mio gruppo (classe?). Sono le strutture organizzate e i corpi intermedi a doversi fare carico del “sistema”, non le singole categorie.

Da questo punto di vista vale la pena di sottolineare un fatto piccolo, ma forse significativo laddove può rappresentare un timido segnale di speranza. Proprio ieri a Potsdam, il Presidente della SPD Sigmar Gabriel ha esplicitato chiaramente la nota su cui i socialdemocratici tedeschi intendono basare la campagna per le elezioni politiche del 2013: “i nostri nemici – ha affermato – sono i mercati finanziari e le divisioni sociali”, sottraendo finalmente la politica al gioco delle personalizzazioni che vorrebbe, in quel caso, il “nemico” della SPD nell’attuale Cancelliera Angela Merkel. Se lungo questo indirizzo comincerà ad affermarsi nel dibattito pubblico ed elettorale, torneremo a sentire l’urgenza di disporre di veri politici, non di “tecnici”. Qualcosa in sintonia con la visone propriamente politica esplicitata da Giulio Tremonti nel suo ultimo libro, una lettura lontana mille miglia dal mainstream “mercatista” e per questo vivamente consigliata. A chiunque voglia tornare a ragionare con le categorie del politico senza adagiarsi nell’illusione suicida della tecnica.