New York, Upper West Side, un celebre ristorante italiano. Lei è la regina del pop, a cena con il suo nuovo boyfriend. Tra una bruschetta con la rucola e una pizza Madame C tira fuori dalla borsa un bottiglia di vino rosso e due calici di cristallo. Terminato il vino, la bottiglia viene riposta nella borsa. A nessuno è dato sapere quale fosse il vino scelto da Madonna per l’occasione, ma poco importa l’etichetta della bottiglia, quanto piuttosto l’étiquette al ristorante. Lecito ed elegante portarsi il vino da casa?
BYOB è un acronimo che sta per “Bring your own bottle” (o anche Beer o Booze, se si tratta di party molto informali), coniato nel mondo anglosassone negli anni ’50, per indicare un’abitudine diffusasi poi con particolare successo in Australia e Nuova Zelanda tra gli anni ’60 e ’70. Funziona così: si sceglie la bottiglia dalla propria cantina, la si porta con sé al ristorante e al ristoratore si paga di solito un “corkage fee”, ovvero un “diritto di tappo”, una sorta di piccolo compenso per il servizio e la mancata vendita del vino “della casa”.
Misura che potrebbe far fronte all’incidenza del prezzo della bottiglia sul conto del ristorante, accontentando clienti e ristoratori: i primi possono permettersi una cena meno salata, mentre i secondi riducono il numero delle etichette pagate e “parcheggiate” in cantina.
Non da ultimo la cosa potrebbe rappresentare un divertente diversivo e farci scegliere il cibo da abbinare al vino e non più viceversa, come d’abitudine accade.
Se in Inghilterra è nato il BYO Wine Club, i cui membri possono partecipare alle cene “Pair & Share” (che sta per “abbina e condividi”) organizzate in molti tra i migliori ristoranti di Londra, e se la gran parte dei locali dal Sud Africa alla Nuova Zelanda consente agli avventori di presentarsi con la propria bottiglia, la cosa è invece scarsamente diffusa in Italia.
Altrettanto dicasi per la “Buta Stupa”, espressione piemontese che indica la bottiglia stappata, bevuta solo in parte e quindi richiusa. Un’ottima idea che ha compiuto 10 anni e i cui affiliati (ahimé pochi) sono facilmente rintracciabili attraverso l’omonimo sito o su Google Map, ma che non ha ancora riscosso il successo sperato.
Il concetto è lo stesso della “doggy bag”, quel cartoccio chiuso col domopak che tutti guardiamo con diffidenza e, diciamolo, un po’ di puzza sotto il naso, o giustifichiamo goffamente (“non posso tornare da Fido senza l’osso della braciola”), ma che, sempre nei paesi anglosassoni, è norma. La bottiglia, acquistata ma non terminata, si richiude (praticissimi sarebbero, se non fossero così poco diffusi da noi, il tappo a vite o quello di vetro) e si porta a casa, con l’ulteriore vantaggio che, degustandolo nuovamente a distanza di ore, o anche il giorno dopo, il vino avrà sicuramente qualcosa di nuovo da dirvi.
Se portarsi i calici da casa suona parecchio snob anche per una pop star, e per presentare in tavola la propria bottiglia è preferibile avere una certa confidenza con il ristoratore, forse possiamo smettere di sentirci maleducati se la bottiglia che abbiamo scelto e pagato ce la portiamo a casa con noi. Come a dire che in tempi di economie anche del vino “non si butta via niente”.