Papale papalePerché il Vaticano non chiude lo Ior?

Lo Ior (Istituto per le Opere di Religione) sembra destinato a produrre scandali. Prima c’è stata la disastrosa gestione di monsignor Paul Marcinkus, il crac del Banco Ambrosiano, il suicidio di Ro...

Lo Ior (Istituto per le Opere di Religione) sembra destinato a produrre scandali. Prima c’è stata la disastrosa gestione di monsignor Paul Marcinkus, il crac del Banco Ambrosiano, il suicidio di Roberto Calvi. Poi – lo ha documentato Gianluigi Nuzzi nel fortunato e documentatissimo libro Vaticano Spa – la maxi-tangente Enimont, l’ombra della mafia, le malefatte di monsignor Donato De Bonis (seppellito, pare, senza funerali), il repulisti del presidente dell’epoca Angelo Caloia. E ora va in scena il terzo atto. Giri finanziari sospetti, conti correnti anonimi, rischio riciclaggio. Banca d’Italia, Unione europea, Oecd (Organisation for Economic Cooperation and Development) e Fatf (Financial Action Task Force) fanno pressing per l’adeguamento del Vaticano alla normative internazionale anti-riciclaggio, la procura di Roma indaga, la stampa pone domande (oltre allo stesso Nuzzi, nella trasmissione Gli intoccabili dell’otto febbraio, Marco Lillo sul Fatto quotidiano e Angela Camuso sull’Unità), la Santa Sede risponde con un primo e un secondo comunicato.

L’ultimo scandalo, il cui esito giudiziario e cronachistico è ancora incerto, scoppia, paradossalmente, quando sul soglio di Pietro siede un Pontefice allergico agli intrallazzi, severo, per struttura teologica e profilo personale nemico del lassismo. E quando, sotto la guida del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone e del nuovo presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, il Vaticano ha iniziato una operazione di trasparenza nelle proprie finanze non priva di qualche angolo buio e reticenza, ma comunque sincera e irrevocabile.

Ora, quando fu creato da Pio XII nel 1942 (e prima di lui, quando Leone XIII nel 1887 fondò la commissione cardinalizia ad pias causas), l’istituto aveva uno scopo preciso: gestire i soldi delle missioni che, altrimenti, rischiavano di essere dilapidati da qualche frate ingenuo e da qualche faccendiere spregiudicato. Oggi non è più così. I missionari – e, per loro, Propaganda fide – possono depositare i loro soldi in banche italiane, o di altri paesi, con garanzie più che sufficienti. Il fatto stesso che il Vaticano abbia firmato le convenzioni dell’Onu per il contrasto al riciclaggio dimostra che il Palazzo apostolico ritiene validi gli strumenti esistenti nella legge civile a tutela dei risparmiatori. Per il resto, lo Stato della Città del Vaticano ha già una sua banca indipendente presso l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) e il Papa ha già una sua “cassaforte” (l’obolo di San Pietro). Se dallo Ior non derivano più benefici, e invece i costi sono elevati – scandali finanziari che minano alla base la testimonianza evangelica – viene allora da domandarsi, senza polemica: perché non chiudere lo Ior?

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