“Non è che siamo contro i beni o diciamo che la Chiesa non possa avere tutto ciò di cui ha bisogno. Ma la domanda è un’altra: perché non circolano? Mettiamo il caso di una congregazione che abbia in banca una somma consistente, in vista di una maggiore sicurezza per la vecchiaia dei suoi membri. E’ questa la finalità? Quei soldi non potrebbero servire a un altro istituto? A un pezzo di Chiesa sofferente che ha bisogno? Perché non sappiamo dire che mettiamo i nostri averi a disposizione di tanti altri? Notiamo che non sempre c’è questa sensibilità o questa disponibilità a far circolare i beni. E ciò, invece, aiuterebbe tanto e potremmo soccorrere situazioni molto difficili, divenendo anche più liberi da tutto quello che abbiamo. Alle volte ho l’impressione che manca un senso profondo della Provvidenza di Dio”.
Le sagge parole pronunciate di recente dal neocardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, prefetto della congregazione vaticana per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, forniscono uno spunto interessante per vagliare la discussione in merito all’imposta immobiliare (Imu) sugli edifici della Chiesa e di altre organizzazioni non profit. Perché a prescindere dall’opportunità politica della vicenda – per me bene ha fatto il governo Monti a modificare una normativa ambigua, bene hanno fatto Vaticano e Cei a dare il loro avallo – e a prescindere dal dibattito sulle scuole paritarie, dalla parabola dei talenti in poi per il cristianesimo far profitto non è peccato, mentre lo è conservare gelosamente la fortuna ricevuta. Detto in termini più economici, produrre non è “evangelicamente scorretto”, lo è non ridistribuire.
Ora la distinzione tra profit e non profit, necessaria in uno Stato laico, non sempre si attaglia a questa logica. Si può immaginare, ad esempio, che un ricco istituto di un ordine religioso utilizzi i profitti per finanziare una mensa per poveri (o per pagare la retta ai suoi studenti meno abbienti…). Contabilmente farebbe profit, ma da un punto di vista cattolico si chiama carità. Al contrario, un dirigente malandrino di un istituto paritario può reinvestire il profitto in convegni con i quali, sotto l’apparenza dell’attività didattica, paga in realtà qualche suo amico a peso d’oro per un paio di ore seminariali. Contabilmente sarebbe non profit, evangelicamente sarebbe scorretto. Più in generale, se i soldi raccolti dalla Chiesa cattolica venissero ridistribuiti a chi ne ha bisogno, che problema ci sarebbe con il profit? Se lo Ior non avesse conti correnti anonimi di dubbia derivazione e ancor più dubbia destinazione, se gli affitti degli immobili di Propaganda fide fossero destinati esclusivamente a opere di carità nelle missioni… Utopia? O – per usare le parole del cardinale Braz de Aviz – semplice senso della Provvidenza?