Realizzare un’opera teatrale partendo da una base documentale non deve essere facile. Tanto più se si tratta di duemila pagine di trascrizione di interviste a lavoratori di diverso livello e mansione.
Come del resto, non deve essere facile realizzare un’opera teatrale su committenza privata.
Ma Serena Sinigaglia ci riesce. E al Piccolo Teatro di Milano mette in scena un bello spettacolo prodotto da Fondazione Pirelli sul tema della rinascita del polo industriale Pirelli di Settimo Torinese.
Il rischio era quello di una narrazione aziendale edulcorata da ogni conflitto. Ma “Settimo. La fabbrica, il lavoro” è invece un arazzo di situazioni e persone nient’affatto glorificatore. In funambolico equilibrio tra il registro buffo e il registro melanconico la regista mette in scena la complessità. Il risultato è una narrazione che documenta la molteplicità di una realtà frastagliata e ancora in movimento e che per questo non vuole fornire risposte definitive.
Motore della narrazione è un viaggio di formazione di un ventenne in prova nella fabbrica di ieri, oggi e domani. Il giovane procede alla scoperta dei cinque reparti di produzione di un pneumatico sotto la guida e protezione di una storica impiegata (non scomodiamo il duo Dante-Virgilio, però!).
Nella messa in scena le interviste raccolte fra operai, tecnici e ingegneri nel progetto documentale della Fondazione Pirelli diventano monologhi e cori. Storie vissute che toccano temi personali aziendali culturali e sociali.
Temi cruciali del mondo del lavoro e che riguardano ogni organizzazione oggi. Come riguardano non meno i lavoratori e coloro che il lavoro non lo hanno. Tra i quali molti giovani. Che come il protagonista, faticano a trovare spazio in un paese in cui non c’è mobilità sociale e in cui il lavoro è spesso ereditato dalla famiglia.
Anche gli operai sulla scena vorrebbero poter passare il loro lavoro ai figli. Per loro spererebbero di meglio e per loro abbiano compiuto mille sforzi per farli diplomare o laureare. Vorrebbero per i loro figli almeno la sicurezza. Che però non c’è più. E invece li vedono persi nelle paludi degli stage e dei lavoretti temporanei e poco qualificati.
Loro, i genitori, i nonni vedevano la fabbrica come fatica, conflitto e lotta di classe, ma anche dignità e senso di appartenenza. Ed ora, questi giovani colmi di istruzione e avvezzi al benessere, cosa vogliono? Cosa possono sperare? E cosa possono dare?
Non c’è solo la difficoltà dell’incomprensione generazionale a far rimpiangere i bei tempi andati di un mondo del lavoro stravolto dal cambiamento. La complessità viene dal multiculturalismo, dalle questioni di genere, da percorsi di carriera in cui non si può più sperare, dalla sfiducia nel sindacato, dal venir meno della collettività, da un’impresa sempre più finanziaria e sempre meno imprenditoriale, dalle mode manageriali imposte dall’alto, effimere e incomprensibili per operai e impiegati, come possono esserlo le sempre nuove tecnologie. E ovviamente dalla crisi. Che è meno peggio solo della mancanza di una visione di cosa sarà il futuro. Perché c’è bisogno di immaginare un futuro. Per tutti. Operai e padroni. C’è bisogno di costruire senso e narrazioni su un futuro possibile.
In scena quindi la fabbrica che era, ma anche la speranza. Il futuro è il nuovo polo progettato da Renzo Piano, con migliorie per gli operai, con maggiori controlli di sicurezza, con un tetto fotovoltaico, reparti all’avanguardia, luce naturale, parcheggi per tutti e tanto verde: insomma un grande reinvestimento industriale nella logica della centralità del capitale umano, della conoscenza, della ricerca, dell’innovazione, della reingegnerizzazione per il total quality ma anche dell’ecologia e del sostenibile. Perché la produzione potrà anche essere trasferita altrove ma il cervello e il cuore rimangono qui. Un futuro di progresso anche se non tutti potranno parteciparvi. Un futuro di speranza anche se cauta e malinconica.
Di Settimo, in cartellone fino al 19 febbraio, oltre alla bravura della regista colpisce il coraggio della Pirelli nel mettersi in gioco in un progetto che ricorda il ruolo che l’azienda, che è fra i fondatori, riveste nella storia del Piccolo Teatro.
Il progetto è anche occasione per il Piccolo di ribadire la propria linea di politica culturale, all’insegna della collaborazione con le maggiori realtà imprenditoriali di Milano e dell’indagine sociale. Un impegno civile in continuità con quello avviato da Paolo Grassi e un’occasione di collaborazione e ibridazione per l’innovazione, della città e della sua industria culturale.