Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri, 2012
Prima di leggere questo libro, dovete sapere che non si tratta di un romanzo. Bensì di un cantico, una memoria corale, tutta al femminile, di un’epopea di migrazione, con il bagaglio di sofferenza, discriminazione, disagio e incomprensione che questa ha comportato. E’ l’epopea degli Issei e dei Nisei – dei giapponesi di prima e seconda generazione emigrati negli Stati Uniti. Ricordate Il gusto proibito dello zenzero che narrava il vergognoso rastrellamento dei giapponesi in America subito dopo l’attacco a Pearl Harbor nel 1941 ? Le donne di Julie Otsuka cessano di cantare proprio a questo punto, quando i giapponesi sono costretti ad abbandonare case, quartieri, negozi in tutta fretta, per essere trasportati in massa in luoghi che le autorità americane nasconderanno ai loro stessi connazionali.
Siamo a La scomparsa, l’ultimo capitolo di questo piccolo libro. Ma di Venivamo tutte per mare stupiscono soprattutto i capitoli iniziali. E’ qui che Otsuka incomincia a ipnotizzarci con il canto poetico delle ragazze comprate per procura dai futuri sposi giapponesi emigrati in America ai primi del Novecento. Anzichè focalizzarsi su questa o quella testimonianza, la scrittrice sceglie di dare un’unica voce alla pluralità di sentimenti di chi, per alleviare la povertà delle proprie famiglie, ha accettato questo salto nel buio aggrappandosi alla promessa (fasulla) di una vita migliore e alla foto (fasulla) di un giovane di bell’aspetto.
La coralità, quel “noi” narrante, produce una scrittura cadenzata, inquietante, poeticamente ripetitiva, con cui Otsuka registra gli innumerevoli rivoli in cui si scioglie la coscienza collettiva di queste donne:
Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. Alcune di noi erano cresciute solo a pappa di riso e avevamo le gambe un po’ storte, e alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine. Alcune di noi venivano dalla città e portavano abiti cittadini all’ultima moda, ma molte di più venivano dalla campagna e sulla nave portavano gli stessi vecchi kimono che avevano portato per anni –indumenti sbiaditi smessi dalle nostre sorelle, rammendati e tinti più volte.
E la dimensione collettiva è anche la più adatta per descrivere cameriere, lavoratrici dei campi, lavandaie giapponesi che i “bianchi” giudicano indistinguibili l’una dall’altra e la cui maggiore virtù è quella di scomparire una volta portato a termine il lavoro e restare sullo sfondo:
Parlavamo di rado. Mangiavamo poco. Eravamo gentili.Eravamo buone. Non creavamo problemi e lasciavamo che ci trattassero come volevano. Lasciavamo che ci lodassero quando erano contente di noi.Lasciavamo che urlassero quando erano arrabbiate.
Migliaia di donne, scaraventate su un pianeta sconosciuto, col passare degli anni si rifanno una vita, hanno dei figli, che diventano più americani che giapponesi. E poi, improvvisamente, spariscono insieme alle famiglie che si sono create. Nell’ultimo capitolo il “ noi narrante” non sono più loro, ma gli americani. Increduli di fronte alla scomparsa di un’intera comunità, si chiedono cosa sia successo ai giapponesi che, silenziosi, coltivavano i loro campi e pulivano le loro case:
Adesso parliamo poco di loro, o non ne parliamo affatto, anche se di tanto in tanto continuiamo a ricevere notizie dall’altro versante delle montagne – intere città dei giapponesi sono sorte nei deserti del Nevada e dello Utah. In Idaho i giapponesi vengono impiegati per raccogliere le barbabietole e in Wyoming alcuni bambini giapponesi sono stati visti uscire da una foresta al crepuscolo, tremanti e affamati.Ma sono solo dicerie, non è detto che siano vere. Sappiamo solo che i giapponesi sono da qualche parte là fuori, in un posto o nell’altro e probabilmente non li incontreremo mai più in questo mondo.