Vatilandia è un luogo molto particolare. Confina, da un lato, con l’Italia, uno strapaese alla provincia dell’impero e, dall’altro, con il mondo globalizzato. A Vatilandia c’è Vatileaks. Si tratta di una fuga di notizie quasi quotidiana a metà tra Wikileaks e il pettegolezzo di una bottega di parrucchiera.
In bilico tra questi due mondi, Vatilandia vive di contraddizioni. Due acuti osservatori non italiani di cose vaticane, John Allen e Frederic Mounier, hanno colto l’aspetto italo-italiano delle ultime fughe di notizie. L’opinionista statunitense del National Catholic Reporter ha ironizzato sulla “Italian soap opera”, mentre il corrispondente francese della Croix a Roma ha sottolineato che “il Vaticano è in Italia. Per questo l’interpenetrazione delle qualità e dei difetti di queste due culture è intima”. Giornali tedeschi come la Sueddeutsche Zeitung e lo Spiegel si avventurano nel racconto degli intrighi emersi dai documenti riservati pubblicati dalla trasmissione Gli intoccabili e dal Fatto quotidiano solo dopo aver premesso che “i media italiani” se ne occupano da settimane. Non è infondato pensare, peraltro, che le fughe di notizie siano accelerate con il controverso tentativo del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone di mettere le mani sull’ospedale milanese San Raffaele, una storia molto italiana. A riprova del fatto che Vatilandia confina con l’Italia, infine, il Concistoro celebrato sabato dal Papa in San Pietro ha rafforzato il “partito romano” del collegio cardinalizio con la promozione di sette italiani e nove curiali. Se il Conclave si tenesse domani, gli italiani avrebbero la maggioranza relativa con un corposo pacchetto di trenta voti. A dispetto dello spostamento del baricentro della Chiesa cattolica mondiale verso il sud del mondo (America latina, Africa, Asia meridionale), al Concistoro sono stati creati cardinali solo un brasiliano, due asiatici e nessun africano.
Eppure, l’italianizzazione di Vatilandia procede quanto più il Palazzo apostolico si integra nel mondo globalizzato. I nodi di uno Ior che resiste a diventare una banca normale, ad esempio, vengono al pettine proprio perché Vatilandia non è più un posto italiano. Certo, il pressing sull’istituto guidato da Ettore Gotti Tedeschi nei mesi scorsi è venuto dalla procura di Roma e dalla Banca d’Italia. Ma le pressioni sarebbero andate a vuoto (come qualche richiesta di rogatoria in passato) se, con l’ingresso nell’euro, l’Unione europea e la Banca centrale europea non avessero acquisito un potere vincolante sulla circolazione della moneta nello Stato della Città del Vaticano. E le raccomandazioni dei diversi organismi internazionali che monitorano da mesi le norme anti-riciclaggio adottate all’interno delle mura Leonine – Moneyvall, Fatf (Financial Action Task Force), Oecd, Consiglio d’Europa – avrebbero scarso impatto se Vatilandia non investisse nei mercati internazionali, non avesse rapporti finanziari con il resto del mondo, non avesse bisogno di rassicurare la City con interventi sul Financial Times, o, mutuando dalla finanza islamica, non si fosse lanciata mesi fa in operazioni transnazionali come lo Stoxx Europe Christian Index. Se, insomma, non fosse un luogo molto particolare, confinante sì con uno strapaese un po’ provinciale, ma aperto ad un mondo dove, peraltro, i cattolici crescono molto più che in Italia. E da dove, in futuro, può venire il prossimo Papa.