CREATIVINDUSTRIEWelfare e lavoro: qual è la strategia del ministro Fornero?

Anche se non ci è ancora dato sapere il come e il quando, il ministro Fornero indica nel passaggio dalle politiche sociali passive alle politiche sociali attive la via per la modernizzazione dei si...

Anche se non ci è ancora dato sapere il come e il quando, il ministro Fornero indica nel passaggio dalle politiche sociali passive alle politiche sociali attive la via per la modernizzazione dei sistemi di protezione sociale dell’Italia, in linea con i Paesi più avanzati.

Le politiche sociali attive vengono propriamente definite come lo strumento necessario per contribuire a conciliare l’esigenza della crescita economica (e degli aggiustamenti strutturali necessari per l’economia) con quella dello sviluppo sociale.

L’ambizione di queste politiche è lo spostare l’accento da un approccio “sussidiario”, ad uno più “attivo” basato sull’investimento e mirato a sostenre il potenziale degli individui perché possano diventare membri autosufficienti e autonomi della società.

Le conseguenze di questo mutamento di prospettiva non sono di poco conto sia per quanto concerne l’elaborazione delle politiche, il ridisegno dei sistemi di welfare, sia per quanto concerne le politiche formative che in tale scenario vengono investite di attese molto elevate (quest’ultimo aspetto mi interessa particolarmente e ci tornerò su in futuri post).

La lotta alla disoccupazione e la promozione della piena occupazione si realizzano anzitutto attraverso la ri-motivazione e la riqualificazione delle persone che sono senza un impiego, favorendo il passaggio dall’assistenza al lavoro, ossia il passaggio dalla percezione passiva di un sussidio al lavoro grazie a incentivi, a una indennità garantita solo a fronte di un impegno “certificato” nella ricerca attiva di un impiego, alla partecipazione ad azioni di orientamento e soprattutto di formazione per migliorare l’occupabilità dei soggetti in difficoltà, all’accettazione di una occupazione “adeguata” alle caratteristiche della persona che la cerca, o di un lavoro forse meno qualificato e poco remunerato, ma temporaneo e capace di favorire il reingresso stabile nel mondo del lavoro.

Ciò sulla base di un “patto” che si viene esplicitamente a siglare tra il lavoratore e lo Stato e che impone al lavoratore stesso il rispetto delle condizioni poste, pena la perdita di accesso ai benefici.

Si tratta di un nuovo paradigma, anche culturale. Un nuovo paradigma che richiede un raccordo stretto tra politiche del lavoro e politiche sociali e in cui il tradizionale rapporto tra lavoro e welfare pare radicalizzarsi.

L’intento è quello di sviluppare un nuovo sistema di welfare che, partendo dall’esigenza di sostenibilità finanziaria, finisce col rivedere la relazione tra welfare e cittadini sin dalle sua fondamenta, riscoprendo alla base il rapporto con il lavoro, e nello stesso tempo assegnando al principale attore del welfare, lo Stato, un ruolo nuovo.

Un ruolo di snodo in nuova rete di protezione che si regge però su alcuni presupposti, i quali devono essere compresenti e tra loro interdipendenti, pena l’insostenibilità del modello stesso. Ovvero la capacità del sistema politico-economico di creare posti di lavoro; implementare un efficiente sistema di incontro/domanda e offerta di lavoro; sviluppare l’offerta di formazione e orientamento; e, last but not least, finanziare economicamente un corposo pacchetto di incentivi (dai crediti di imposta agli incentivi alle assunzioni, alle integrazioni di reddito).

Ciò implica che la riforma del welfare non va necessariamente in direzione di una sua marginalizzazione e riduzione; al contrario, la sua ridefinizione ne dovrebbe implicare una sua espansione nell’incrocio tra le politiche sociali e le politiche del lavoro (attive, ma anche passive), prevedendo che le misure di sostegno al reddito e gli ammortizzatori sociali diventino anche strumenti per permettere ai lavoratori di affrontare periodi di formazione e riqualificazione, di rientrare con rinnovate competenze nel mercato del lavoro uscendo dalla situazione di assistenza.

Si tratta di una opzione molto costosa. Dove prendere le risorse?

Certo potrebbe essere realizzata prestando unicamente attenzione ai costi economici, limitandosi a individuare le opportunità di risparmio insite nella diminuzione delle persone dipendenti dal welfare. Ma se si vuole che tale rete di protezione configuri invece un’assistenza “equa”, allora occorrono investimenti ingenti nel sostegno degli incentivi, quanto nella formazione e nei servizi per l’impiego.

Solo a queste condizioni può realmente realizzarsi l’obiettivo europeo della flexicurity (argomento di discussione da Lisbona 2000), chiamata a fare sintesi tra le esigenze di flessibilità economica e del mercato del lavoro, e quelle di sicurezza e protezione sociale.

Nella definizione divenuta “classica” di Wilthagen e Tros, la flexicurity è una strategia politica che insegue il doppio obiettivo di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, delle imprese e delle relazioni di lavoro da un lato, e di aumentare la sicurezza, occupazionale e sociale, soprattutto per i soggetti deboli dentro e fuori il mercato del lavoro, dall’altro lato.

Il che, però, implica la presenza di una strategia politica che sia realmente in grado di mirare a entrambi gli obiettivi.

Qual’è la strategia del ministro Fornero?

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter