Le pietre di tufo ingoiano memoria e restituiscono poesia. A Lecce, nella periferia popolare del quartiere di Santa Rosa, un artista murale ha tributato un omaggio più che meritato al maestro salentino. Capolavoro completo, grazie ad un balcone ed una finestra: generosi nel loro presunto volersi fare arte. Dieci anni fa, proprio in questi giorni, si spegneva a Roma il genio del teatro. Niente singhiozzi né ditirambi paraculi, non sarebbero graditi. Commemorazioni nulle, niente candele. Fiocchino irridenti pernacchie e sonore smargiassate, il narcisismo senza tomba e senza tempo porti in processione un Carmelo visionario e «non esistente», se non nella frangetta.
La terra che visto germogliarne il talento raccoglie la sfida dell’emulazione, con garbo ed umiltà. “Le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un dado”, per dirla con Vittorio Bodini – altro grande poeta nato a Mezzogiorno, intrise di orgoglio e rarefazione, si offrono quale sacrario immobile dell’artigiano di parole e fonie. Mentre, sempre per una storia di case e patrimoni e debiti, litigano le eredi, e si accapigliano e si dannano. Mentre i luoghi che ne ospitarono la follia rischiano l’alienazione (quella triste dei notai: non quella superba della mente).
Carmelo nasce tra le pietre del “sud del Sud dei santi”, in una famiglia dell’ortodossia cattolica. Respira il perbenismo contadino del Salento, l’aria sciroccata del mare proiettato a Oriente, la noia “da per sempre”. Bazzica scuole a gestione monacale e assorbe insofferenza sovversiva. Nato ribelle, sfugge alla leva e coltiva le proprie moltitudini in Accademia. Non bastano i lacci del manicomio né le manette dei commissariati ad inquadrarlo, non i soldi né la fama faranno di lui un “intellettuale”. Un animale di scena, resterà un rozzo genio fin troppo elitario.
Resterà un tuono, nella bonaccia del qualunquismo nostrano. Imitato sebbene inimitabile, vivo in tanti. Si riscoprano le virtù salvifiche del Grande Teatro, il disprezzo per la critica, la parentesi della cinematografia, le intemperanze ebbre di ego, l’apoteosi del palcoscenico, le contraddizioni del medium, gli errori meditati e la frustazione dell’incompreso. Ci si abbandoni alla sua poesia fatta di: «lontananza, assenza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza». Coi libri impolverati che non passa il Ministero e col pingue archivio virtuale, ora.
Senza alcuna pretesa scolastica o retorica, giacché «per capire un poeta, un artista – a meno che questo non sia soltanto un attore – ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista». E noi – che, qui ed ora, ci appassioniamo di lui – solo uomini siamo. Molto bene, meglio per noi.
Credits: foto di Chiara Sindaco, da qui. Lecce, quartiere Santa Rosa. Artista Ignoto, si faccia vivo.