La protesta contro il gigante delle pubblicazioni scientifiche Elsevier non accenna a diminuire. Da quando il matematico inglese Tim Gowers ha lanciato la proposta di boicottare l’editore olandese per i prezzi ingiustificatamente alti, sono quasi novemila i ricercatori di tutto il mondo che hanno firmato la petizione online. Per una panoramica sulle motivazioni della protesta, che qualcuno ha associato al movimento Occupy, vi rimandiamo al nostro post precedente.
Elsevier nel frattempo non è stata con le mani in mano ma ha rilanciato la sua iniziativa Open Access (che, a onore del vero, non è una conseguenza della protesta). Per farlo ha aggiunto gli archivi di alcuni journals al suo archivio aperto (va da sè, sempre dopo diversi mesi dalla pubblicazione) e ha aggiunto anche 13 journals a quello che chiama “open access portfolio”. Non si può certo parlare di grande apertura, visto che le pubblicazioni indicizzate dal sito di Elsevier sono più di 2600.
In più, sulla stessa pagina dell’Open Access Initiative l’editore olandese pone qualche limite a quei ricercatori a cui le istituzioni di ricerca per cui lavorano chiedono di depositare anche in un archivio aperto i propri risultati, oltre che sulle pagine delle riviste scientifiche. Sul sito si legge che in questo caso “Elsevier richiede un accordo anticipato con l’organizzazione per assicurarsi che le politiche di pubblicazione dei manoscritti non minino la sostenibilità della rivista”. Per un editore che, come abbiamo riportato a febbraio, nel 2010 ha avuto un profitto di 724 milioni di sterline sembra una richiesta che sa tanto di ingordigia, tanto più se, seguendo il ragionamento di Gowers, pensiamo che moltissime di quelle ricerche sono effettuate da ricercatori che non vedono il becco di un quattrino da Elsevier per la fatica fatta per pubblicare.
Anche vantarsi che per gli accordi intercorsi tra i National Institutes of Health americani (che sono finanziati con danaro pubblico e vincolano alla pubblicazione su piattaforme aperte) Elsevier ha depositato gratuitamente “più di 80.000 manoscritti” appare per lo meno inelegante.
Sembra assistere alle mosse di marketing di un’industria che ha cominciato a capire che il modello editoriale che propone sta cominciando a mostrare la corda e tenta di prolungare il più possibile la propria sopravvivenza mascherando la propria natura con qualche piccola operazione di maquillage. (marco boscolo)