Mi risulta incomprensibile la passione per l’articolo 18 in un paese che da decenni è convinto della crisi della categoria “lavoro”, quando non addirittura con grande enfasi ha proclamato la “fine del lavoro”. E dunque significativamente lo tratta come residuo parassitario.
Ciò è avvenuto su due differenti livelli, concettuale e storiografico:
sul piano teorico-concettuale, la crisi è apparsa sia nei termini di eclissi del lavoro come lo si era conosciuto all’alba della rivoluzione industriale e dell’espansione capitalistica, sia nei termini della conseguente impossibilità di restituire una visione complessiva e unificante sul terreno analitico;
sul piano storiografico, si è manifestato un forte calo d’interesse per il lavoro e i lavoratori come oggetto di studio.
Il mondo del lavoro è diventato storia dell’industria, per poi divenire storia delle famiglie industriali.
Se prima la storia del lavoro era la storia della classe operaia, ora la storia del lavoro è diventata la storia del “padrone” (anzi no dell’imprenditore, un termine che nessuno spiega, perché se dovesse dargli un contenuto, dovrebbe fare una preventiva radiografia della natura sociale, culturale, e tecnica di una categoria sociale alquanto incerta su cui è meglio tacere) dei suoi successi, delle sue avventure.
Secondo un modello da serial televisivo – inaugurato e rappresentato al meglio da Beautiful – la storia dell’impresa in Italia, è stata assunta come storia privata dei ricchi (di nuovo identificati come imprenditori).
Era errato, e parziale, il primo tipo di approccio così come lo è il secondo.
Infatti, continuano a non esserci molte cose: la storia fuori del luogo di lavoro, la storia dei tecnici, la formazione e i luoghi di formazione del management aziendale e quella delle direzioni sindacali; la storia della tecnica e della innovazione.
Il paradigma che sottosta ala narrazione della storia è proprio di un paese che discute solo dei problemi, dei temi e dei gusti di chi si ritiene sia egemone e degli argomenti che già si sanno. Ovvero si discute di ciò che non genera problemi, ma è funzionale a riordinare e ad amministrare il presente.
A dimostrazione che una vera riflessione sull’idea di sviluppo, se stiamo al’argomento in questione, continua a non esserci e nemmeno ci si preoccupa di individuarla, ma si suppone che basti la parola o che sia sufficiente rimuovere un ostacolo perche per magia riparta la società dei virtuosi.
16 Marzo 2012