Storia Minima25 anni fa se ne andava Primo Levi: ecco perché dire “mai più” non serve a niente

Primo Levi non era né un visionario, né un veggente. Semplicemente aveva vissuto con profondità e responsabilità il Novecento e sapeva che solo guardandolo in faccia era possibile andare avanti per...

Primo Levi non era né un visionario, né un veggente. Semplicemente aveva vissuto con profondità e responsabilità il Novecento e sapeva che solo guardandolo in faccia era possibile andare avanti per davvero. Sarebbe bene tenerlo a mente, soprattutto in
questa giornata in cui molti parleranno di Primo Levi.
Credo che sia importante farlo, ma credo che allo stesso tempo sia importante anche quale angolo prospettico si sceglie, soprattutto evitando che quella di oggi sia una replica del “giorno della memoria”.
Si possono scegliere due percorsi.
Il primo percorso riguarda alcuni temi della sua riflessione che hanno attinenza con l’esperienza del Lager e lo sterminio, ma che sono ciò che quel tempo inaugura riprendendo una suggestione proposta anni fa da Zygmunt Baumann nel suo Olocausto e modernità (il Mulino). Per esempio: la qualità del lavoro e la sua dignità; il pudore e la vergogna; l’attenzione alle parole, alle cose materiali e al loro destino; i percorsi delle letture e la formazione culturale, il rapporto curioso con il sapere, l’umanismo del sapere scientifico, la dignità del sapere tecnico.
Primo Levi aveva scritto e chiamato a riflettere – spesso senza ricevere risposta, comunque in “solitudine” – in un’Italia troppo indaffarata a diventare moderna, su questioni e temi che noi ci ritroviamo davanti ora: la funzione pubblica dello scrittore civile; la sobrietà del pensare; il degrado del lavoro;il significato della memoria; la comunicazione tra generazioni sempre più lontane; i meccanismi della cultura; i percorsi dell’identità locale; il rapporto tra continuità e innovazione e quello tra sapere scientifico e sapere umanistico.

Il secondo percorso non è alternativo al primo, ma in un qualche modo è la condizione con cui con maggior difficoltà siamo capaci di misurarci. Questo secondo percorso ha ne I sommersi e i salvati, il testo che in un qualche modo siamo indotti a leggere come suo testamento, il luogo fondativo
Sarebbe bene leggerlo a prescindere dalla morte di Primo Levi, non schiacciandolo su un’interpretazione tutta meccanica (troppo semplice e troppo semplicistica) ossia non come una esplicitazione in pubblico della sua condizione interiore che anticipa la sua morte.
Infatti, I sommersi e i salvati è un testo obbliga a riformulare le domande e le risposte che con troppa “facilità” sono state date e dette: inquietanti per i sopravvissuti, non assolutorie per chi in un qualche modo crede di porsi furbescamente su un territorio altro, pensando che così si dimostri la propria posizione equanime.
Guardare il lager, dalla parte degli oppressi non implica stare dalla parte degli eroi. Quello del lager è un mondo in cui gli oppressi, di per sé, non si battono in nome della emancipazione: né della propria in quanto categoria, né, tanto meno, per una collettiva e generale. Non c’è in altre parole una massa che salva il mondo in nome della liberazione dall’oppressione. E non c’è un’autocoscienza di pensarsi collettivamente oppressi.

I sommersi e i salvati rappresenta un luogo complicato della riflessione contemporanea. Non è un testo consolatorio. Al contrario si impone e ci impone una condizione di lucidità. Un libro duro, per niente adatto a lettori “tiepidi”. Alla fine di questo libro si saranno capite molte più cose e forse anche alcune immagini semplicistiche ci sembreranno più complicate. In ogni caso più reali e più vere. Non è detto che se ne esca ottimisti.

Ripetere “mai più”, oggi. non significherebbe niente e avrebbe solo il senso di un’invocazione propiziatoria.

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