In questi giorni tiene banco sulle pagine di LK il dibattito sull’ipotesi di valorizzazione della Galleria Vittorio Emanuele elaborata da Altagamma e prospettata al Comune di Milano. La proposta consiste, come già illustrato su queste pagine da Michele Fusco e da Andrea Tavecchio, nella costituzione di un fondo di immobiliare di cui il Comune manterrebbe il controllo (51%). Il resto del capitale andrebbe a investitori privati interessati a valorizzare gli spazi che attualmente rendono pochissimo – l’Assessore Tabacci parla di 127mila euro/anno – tramite la realizzazione di un grande polo del lusso e del design, in un luogo prestigioso in pieno centro di Milano, capitale universalmente riconosciuta del made in Italy. Dalle prime stime Comune incasserebbe subito 450 milioni di euro e, una volta realizzato il progetto, circa 35 milioni di euro/anno. Un bell’affare.
Da un lato l’Assessore al bilancio perora la causa, dall’altra si registra una forte opposizione contro un’operazione che riserverebbe alle élite globali del consumo del lusso l’utilizzo di spazi sottratti “al popolo”. Situazione in cui si assiste a scene particolarmente succose e paradossali come l’ergersi, a sinistra, a difesa della permanenza in Galleria di multinazionale americana del junk food perché “popolare”. Naturalmente il dibattito continua poi a scivolare verso la solita, vecchia e consunta contrapposizione privato efficiente/pubblico sprecone, sempre astratta e sempre decontestualizzata. Così che i sostenitori dell’operazione parlano di privati capaci di valorizzare quello che il Comune non sarebbe in grado di fare, riservando invece all’Ente pubblico l’unico ruolo di occuparsi di treni del metrò, case popolari, piste ciclabili e asili materni, mentre gli oppositori gridano al furto ai danni delle casse pubbliche.
Quello che invece non è mai saltato fuori in questi lunghi anni di privatizzazioni (al Comune di Milano come altrove) è un briciolo di riflessione circa aspetti un po’ più cruciali. Vediamone alcuni, cercando di uscire dalle ideologie, visto che la prima ha perso nell’89 col crollo del Muro, l’altra nel 2008.
Primo. Se si vende, lo si fa guardando non solo al prezzo, ma anche chiedendosi per fare che cosa. Perché non vale proprio la pena di ripetere la storia della svendita AEM condotta da Albertini, né le girandole di vendite e acquisti della infelice storia di Metroweb (sotto le amministrazioni sia Albertini sia Moratti). Il prezzo dev’essere fair, ça va sans dire. Ma soprattutto, se la risposta al che cosa fare con le risorse ricavate è treni del metrò, piste ciclabili o biblioteche qualcuno dovrebbe porsi la questione di quanto queste scelte siano sostenibili in termini di politica di bilancio. Perché la Galleria Vittorio Emanuele è un bene immobiliare e, come tale, ha un valore patrimoniale tendenzialmente crescente nel tempo e rappresenta – meglio se ben gestita – una voce di ricavi per il bilancio del Comune, mentre i treni del metrò sono un bene strumentale che va in ammortamento (valore nel tempo tendente a zero) e rappresentano una voce di costi (funzionamento e manutenzione), le biblioteche o gli asili, sono al pari beni immobiliari ma senza alcun valore di mercato e sempre con costi di funzionamento e manutenzione. Dunque: quel patrimonio crescente e quelle entrate a cui si rinuncia oggi, come saranno sostituite domani? Detto in altri termini: quando ci saranno da sostituire nuovi treni del metrò o costruire nuove piste ciclabili, cosa potrà fare il Comune? Sic rebus stantibus, nella maggior parte dei casi, la risposta è una sola: imporre nuove tasse.
Da questo punto di vista però, e a prescindere dal merito effettivo del progetto che non conosciamo, il caso della Galleria si presenta diverso. In primo luogo perché, con patti ragionevoli, si potrebbero imporre determinati limiti alla incondizionata libertà dei privati (vincoli di destinazione, paesaggistici, di decoro, etc…) sia perché la proposta prometterebbe di generare cassa per il Comune. E questo è senz’altro un buon punto a favore dell’Assessore Tabacci.
Secondo. Se si vuole affrontare una nuova privatizzazione (parziale o totale che sia) sarebbe il caso di andare almeno a guardare cosa è successo in operazioni analoghe del recente passato. E allora magari scopriremmo che la storiella dei privati sempre virtuosi e del pubblico sempre vizioso è una gran balla che ci hanno raccontato per anni e che neppure il disastro della crisi mondiale riesce ancora a smascherare. Potremmo – come ha egregiamente fatto Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni” – parlare del caso Telecom, ma anche di tanti altri casi di cessione di patrimonio pubblico da parte dello Stato sistematicamente delapidato dai privati (in genere sempre i soliti).
In generale infatti non è affatto vero che il pubblico abbia sempre gestito male attività d’impresa e lo è ancora meno nel caso del Comune di Milano in cui il vero disastro (quello per cui oggi la Giunta Pisapia si trova costretta ad affrontare un bilancio dissestato), casomai è stato compiuto da due Sindaci più che mai rappresentativi della crème della classe dirigente imprenditoriale milanese: Albertini e Moratti. La tradizione del Comune di Milano, al contrario, è stata invece assolutamente virtuosa nella gestione delle sue imprese, fattore che ne fece forse il Comune più ricco del paese, con il bilancio più solido.
AEM nacque nel 1910 da un referendum in cui i milanesi decisero di dotarsi di una propria società di produzione di energia elettrica proprio perché quella privata – Edison – forniva quel servizio a prezzi da rapina. Fu una scelta che contribuì in maniera decisiva allo sviluppo di Milano perché rese accessibile l’elettricità all’industria a prezzi più bassi, pur generando un’enormità di entrate per il Comune. Quando nel 1983 il Comune acquisì anche il servizio del gas da Montecatini lo fece dando un impulso decisivo alla diffusione del metano e all’avvio del teleriscaldamento, oltre a disporre di un’area di grande valore come quella di Bovisa Gasometri. E quando nella seconda metà degli anni Ottanta il Comune iniziò con AEM la posa delle fibre ottiche vide con grande lungimiranza (più di qualunque privato) quale sarebbe stato un driver di sviluppo futuro. Peccato che poi qualcuno abbia deciso di vendere quella rete già posata a due “intraprendenti” privati – Scaglia e Micheli – da cui poi prese avvio quella girandola surreale di riacquisti e rivendite in cui il Comune ci ha sempre perso. Quei due geni eletti a Sindaci, erano l’uno un imprenditore organico a Confindustria l’altra una rampolla di una delle famiglie di imprenditori più note di Milano, non dei politici.
AEM, una società che dalla nascita aveva registrato un solo anno in rosso (il 1943, quando Milano fu devastata dai bombardamenti angloamericani), è finita parzialmente collocata sul mercato a 1.660 lire per azione nel ’98, quando solo due anni dopo il “mercato” è arrivato a riconoscere un valore di oltre 15.000 per azione. Fino ad allora non solo aveva prodotto consistenti entrate per il Comune (nell’ordine delle centinaia di miliardi di lire/anno), ma forniva alla collettività energia elettrica a prezzo politico per illuminazione pubblica, trasporti (tram, filobus, metrò), edifici pubblici. Tra le altre cose AEM è stata anche la prima società elettrica in Europa a realizzare una centrale a emissioni zero (quella a celle di combustibile, in Bicocca), mostrando un’ottima capacità di innovazione. La fine che ha fatto quel gioiello – e anche di ASM Brescia, un gioiello ancora migliore – è sotto gli occhi di tutti, così come la fine peggiore che sta facendo il bilancio del Comune.
MM Spa, a cui non si capisce in base a quale logica è stato appioppato l’acquedotto, è stata per anni la seconda società di engineering italiana dopo Snam Progetti, capace di competere in tutto il mondo e capace di brevettare un sistema di costruzione di metrò che ovunque nel mondo si chiama “Metodo Milano”. Mai registrato un solo anno di passivo.
Centrale del Latte di Milano era proprietaria, oltre che delle aree di pregio in Bocconi, del brevetto mondiale sul latte HD – alta digeribilità messo a punto con una società inglese, prima di essere ceduta a Granarolo da Albertini.
ATM – che come tutte le aziende di trasporto pubblico locale è in deficit strutturale – è la società italiana del settore di dimensioni comparabili, con la più alta quota di ricavi da vendita biglietti, un livello di servizio e un parco mezzi assolutamente eccezionale per quel che riguarda il panorama italiano. Tra l’altro dispone anch’essa di ottimi brevetti, in particolare sulle tecnologie per l’armamento tranviario.
SEA macina utili in continuazione, nonostante l’handicap di Linate (su cui non può decidere autonomamente), le tariffe aeroportuali più basse d’Europa (fissate ex lege dallo Stato), i dividendi straordinari chiesti da Albertini e dalla Moratti (sempre loro, gli “imprenditori prestati alla politica”, capaci di capolavori come l’operazione derivati), il de-hubbing Alitalia e la crisi economica mondiale.
E allora di cosa stiamo parlando? Quando si parla di privatizzazioni, invece di lanciare fatwe sul pubblico e peana sui privati, sarebbe il caso a) di andare a vedere caso per caso, b) di porsi il problema della sostenibilità nel tempo di politiche di bilancio che possono dare respiro alla Giunta di turno per il breve lasso del suo mandato, ma affossare i conti del Comune (e quindi razziare le tasche dei cittadini) nel medio periodo.
L’operazione sulla Galleria può avere un senso. Ma prima poniamoci un paio di domande: quali attività può avviare il Comune che siano a) sostenibili dal punto di vista della tenuta del bilancio senza futuri aggravi fiscali e b) utili a innescare processi virtuosi di sviluppo per la città che i privati non hanno né l’intenzione né (vista l’esperienza qui e non in UK o altrove) la capacità di fare? Ecco, le piste ciclabili, qualche treno del metrò o anche qualche stazione in più, gli asili, le biblioteche o le case popolari non appartengono a quel genere di attività. Pur avendo assoluta dignità di investimenti sociali, non sono investimenti in termini di bilancio. Vendere la Galleria per fare piste ciclabili è palesemente una pirlata, esattamente come vendere AEM per fare illuminazione pubblica o manutenzione stradale straordinaria (che è quello che ha fatto la giunta Albertini).
Se invece vendere la Galleria potesse servire a investire su asset o a non vendere asset più remunerativi, con prospettive di aumento del valore più consistenti (cioè capaci di incrementare i ricavi e aumentare il patrimonio del Comune) e in grado di produrre effetti sistemici di crescita più ampi, allora sarebbe un’ottima idea. Tra l’altro iljunk food, qualora pure sparisse dalla Galleria, lo si trova in abbondanza a pochi metri dal Duomo, non c’è da preoccuparsi