Città invisibiliRoma, l’archeologia è al buio

I monumenti dell'antichità, isolati o facenti parte di complessi, all'interno o comunque integrati nella città contamporanea, costituiscono il contenuto di un museo diffuso nel tessuto urbano per i...

I monumenti dell’antichità, isolati o facenti parte di complessi, all’interno o comunque integrati nella città contamporanea, costituiscono il contenuto di un museo diffuso nel tessuto urbano per il quale andrebbe fatto ogni sforzo per renderlo riconoscibile e comprensibile nel suo insieme e nei singoli episodi. Così, affermava Franco Minissi, uno dei padri della museografia italiana, “il contesto ambientale nel quale il monumento risulta collocato andrebbe assunto sul piano museologico come suo contesto espositivo e i metodi della museografia dovrebbero nei casi opportuni … esaltarne i valori complessivi e di dettaglio”. Informazioni sul monumento, eliminazione di elementi di disturbo visuale, indicazione di percorrenze, opportuna illuminazione serale, ad esempio. I progetti, le esperienze, si sono moltiplicati con gli anni. Interessando sempre più attivamente gli archeologi. Come documenta esemplarmente la ricca casistica di interventi confluiti negli Atti dei due seminari di studi sul tema specifico (I siti archeologici. Un problema di musealizzazione all’aperto), pubblicati nel 1988 e nel 1995. Sulla scia degli insegnamenti della scuola di Architettura, in diversi luoghi del Paese, si sono sperimentate operazioni innovative, nelle quali museografia e siti archeologici si fondevano armoniosamente, producendo risultati di livello. Per lo specialista come per l’utente occasionale. Come la musealizzazione dei resti romani nella piazza del Duomo di Atri, nella quale le teche vetrate, fornite di impianti di aspirazione e filtraggio dell’aria, contenevano ciascuna anche un leggio con la grafica illustrativa. Ma anche i pannelli “studiati” per la zona archeologica di Monte Bibele, nell’Appennino bolognese. Esperienze delle quali, paradossalmente, nessun eco sembra essere giunta a Roma. Dove, senza allontanarsi dal centro, si può verificare come la gran parte dei monumenti, non soltanto versi spesso in uno stato di conservazione precaria, ma sia “muta”. Risulti priva di una pannellistica adeguata. E’ desolatamente così per singoli monumenti come per parti dei Fori imperiali. Nelle loro diversità planimetriche e strutturali, uguali. Il piccolo sepolcro in tufo e travertino di C. Publicius Bibulus, a pochi metri dal lato sinistro del Vittoriano. La fontana monumentale chiamata Meta Sudans, dalla caratteristica forma conica, presso l’arco di Costantino, sul lato del Colosseo. Ma anche il Foro di Cesare, quello della Pace e quello di Traiano, lungo via dei Fori imperiali. L’area sacra di Largo Argentina, tra via Florida, di S. Nicola ai Cesarini, di Torre Argentina e il largo omonimo. Nel caso dei Fori, aree, scavate in tutto o in parte recentemente. Aree sulle quali si é deciso di intervenire con onerose campagne di scavo, in occasione del Giubileo del 2000, alterando la sistemazione di via dei Fori imperiali. Con una scelta mirata. Decidendo che si sarebbe potuto riportare in luce parti della città romana, obliterate negli anni Venti del Novecento dalla realizzazione della viabilità di collegamento tra Piazza Venezia e il Colosseo. Malauguratamente anche queste parti del patrimonio archeologico romano, come tanti monumenti di differente consistenza disseminati per la città, si offrono ai visitatori senza il necessario apparato illustrativo. Non soltanto mancano i percorsi di guida, ma persino le indicazioni che permettano di identificare i differenti monumenti. Senza una guida é quasi inutile, passando dal piano di calpestio attuale a quello dei resti antichi (e medievali), passeggiare per quelle rovine. Sempre che si voglia capire qualcosa. Che si voglia riconoscere, distinguere, mettere in relazione cronologica parti, ormai, separate e lontane. Insomma, provare a capire. Che a cimentarsi in questa operazione non sia il raro studioso ma la massa dei turisti. Come é possibile che avventurandosi per il Foro della Pace (nella parte aperta al pubblico, non certo in quella, immediatamente sotto la basilica di Massenzio, che a distanza di almeno tre anni dal termine degli scavi, ancora risulta inaccessibile) si riesca almeno a farsi un’idea? A riconoscere le aiuole nelle quali gli archeologi hanno recuperato resti delle rose che le adornavano?
Di fronte a questa musealizzazione priva, generalmente, di quelli che Minissi chiamava “contesti espositivi”, il valore di quei monumenti, le notizie che le indagini archeologiche hanno permesso di acquisire, sembra quasi scemare. A diminuire, certo, non é la loro bellezza, ma il loro significato, la loro comprensione. Quasi volutamente l’immagine che se ne offre al visitatore, italiano e straniero, é di inefficienza, sciatteria, incapacità a fornire un prodotto, non solo “naturalmente”, attraente. Ricorrere anche in questa circostanza, per aree sulle quali si é deciso di intervenire senza che ve ne fosse l’urgenza e quindi potendo prevedere nei costi scavo e musealizzazione, alle esigue risorse finanziarie a disposizione appare pretestuoso. Qualsiasi indagine di scavo, a priori deve necessariamente contemplare la fruizione. Non si tratta di un auspicio ma di un dettame imprescindibile se si hanno davvero a cuore le sorti del nostro passato.
Quei monumenti e molti altri, ora, sono al “buio”, privati della luce che solo la comprensione reale può offrire. Non é questione marginale, questa. Nella asfittica macchina statale non sarà, presumibilmente, sufficiente aumentare i finanziamenti, “rimpoplpare” gli organici dei tecnici, archeologi e restauratori in primis, per accendere la luce. Per rendere quelle parti di tessuto urbano, quei monumenti, davvero vitali, per non farne ancora dei “funghi pittoreschi”, servono idee nuove, riconosciute capacità. Altrimenti Roma non sarà molto differente da quella celebrata dal Belli, alla metà dell’Ottocento, nel sonetto Er zervitor del piazza, er Milordo ingrese e er vitturino a nòlito. Una città nella quale i monumenti antichi erano parte integrante del reticolo urbano anche se la maggior parte delle persone ne aveva una conoscenza superficiale e, non di rado, anche in parte errata.