Fedeli all’insegnamento di Balzac per cui “ogni potere umano è composto di tempo e di pazienza”, ci vien da dire che il governo Monti, che nasceva come gli yoghurt con la data di scadenza ben impressa, stia esaurendo il tempo e spazientando i suoi sostenitori.
Noi avevamo salutato con fiducia il governo Monti per tre ordini di motivi: il primo, e più urgente, perchè ci pareva l’unica soluzione praticabile per ristabilire un minimo di decenza nell’amministrazione della cosa pubblica, e per ripristinare il rango italiano tra i partner europei e mondiali. E ciò nonostante le rimostranze, più di ordine politico che non costituzionale, con le quali molti avevano protestato per l’incarico affidato al senatore alla bisogna Mario Monti. In fondo, era il nocciolo del nostro pensiero, del governo Monti si poteva dire ciò che Churchill usava dire della democrazia: che è la peggior soluzione, eccezion fatta per tutte le altre.
Il secondo motivo è che speravamo che il governo Monti, il governo dei professori, potesse sentirsi più svincolato rispetto ad un governo politico puro dal continuo mercanteggiamento imposto dalla pessima qualità della politica italiana, in cui i governi della pseudo-destra italiana, con le maggioranze più ampie mai viste in sessant’anni di repubblica, riuscivano a muoversi come una falange parlamentare solo quando erano in gioco gli interessi (privati) dell’Achille Lauro della Brianza. Ed in cui le esperienze di governo della pseudo-sinistra italiana si peritavano di impallinare sistematicamente le iniziative dei suoi uomini migliori, pur di far assaporare ai suoi modesti comprimari l’ebbrezza del palcoscenico e dei riflettori.
Il terzo motivo era che speravamo che Monti riuscisse a disseminare qualche seme liberale, almeno nelle riforme economiche. Quegli interventi, tanto per chiarirci, che sono sollecitati oramai da oltre vent’anni da ogni editorialista, da ogni opinionista, da ogni intellettuale, da ogni economista.
E ci pareva che si fosse iniziato col piede giusto, varando, in poche settimane, una riforma previdenziale che finalmente accelerava gli obiettivi di sostenibilità finanziaria e di equità intergenerazionale delle riforma Dini.
Per carità, in quelle prime battute veniva anche approvata una manovrina, l’ennesima nel famigerato 2011, con cui si continuava a spremere la scorza, oramai esausta, del contribuente italiano, dimentichi del vecchio insegnamento dell’abate Galiani, economista italiano del ‘700, per il quale “le imposte sono i reumi dello Stato, le malattie dei vecchi”!
Con il nuovo anno, ci pareva che il Governo ripartisse col piede giusto annunziando, e la parola non è scelta a caso, un vasto intervento di liberalizzazione dell’economia italiana. Dopo il consueto mercato delle vacche, unito alla esiziale propensione di certi novelli Masanielli alla strumentalizzazione demagogica, si è giunti ad un tale annacquamento di quel mezzo bicchiere di vino offerto, da renderlo bevibile anche al più astemio dei protezionisti. Eccezion fatta, forse, per gli avvocati che continuano, come quei famosi soldati giapponesi, a combattere la loro guerra anche dopo il cessate il fuoco.
E venne il momento della riforma del mercato del lavoro. Qui le credenziali liberali di molti esponenti dell’esecutivo ci avevamo fatto sperare. E ci immaginavamo che potesse trovare accoglimento una ricetta che, in italiano, era stata fornita da Franco Modigliani, non certo un alfiere del conservatorismo. Per Modigliani, infatti, la lotta alla disoccupazione deve essere condotta consentendo la flessibilità del lavoro e l’elasticità delle retribuzioni, soprattutto in entrata.
E qui vi sarebbe stato, per un governo all’altezza del proprio lignaggio, un gran lavoro da fare, compresa, magari, la contropartita della tassazione negativa: se non raggiungi, sul piano negoziale, un livello minimo di retribuzione, è lo stato che provvede ad integrarti la differenza con un trasferimento in denaro.
Ma nonostante i propositi, e le dichiarazioni di definitività, il governo Monti ha fatto una parziale, ma significativa, marcia indietro. Così accontentando non tanto la CGIL, ma il segretario del Partito Democratico. Contribuendo ad alimentare, con tale mossa del gambero, un triplice fraintendimento: ci si è rimangiati la volontà – giusta e sennata – di ascoltare tutti ma decidere da soli; si è riconfermata la primazia del PD sulla CGIL; si è ulteriormente ammaccato il principio, da noi troppo spesso dimenticato, che in una democrazia liberale il corpo politico/parlamentare dovrebbe essere autonomo rispetto al corpo sociale.
Ora, ed è notizia delle ultime ore, il governo ha varato una bozza di delega fiscale che rimaneggia, con il consueto gioco delle etichette, i ferrivecchi della macchina impositiva italiana. E, a parer nostro cosa ancor più grave, si rimangia l’impegno di destinare le somme recuperate dall’evasione alla esclusiva riduzione della pressione fiscale. Ovvero, l’unico sensato scopo che lo sguinzagliamento della Guardia di Finanza avrebbe giustificato, soprattutto in termini di equità.
Perchè, almeno tra i quattro gatti liberali oggi per puro caso al governo, dovrebbe esser chiaro che la dimensione dello stato italiano e la quota di ricchezza privata da questo assorbita non siano giustificabili. Soprattutto alla luce della qualità, e della quantità, dei servizi resi ai cittadini.
Senza che vi sia traccia, almeno a prima lettura, di uno dei pochi provvedimenti sensati che la bancarotta della riscossione fiscale italiana dovrebbe peritarsi a provare: l’introduzione di norme che facciano ricorso al contrasto di interessi. Per recuperare base imponibile e gettito fiscale, infatti, non resta che mettere in moto non tanto le pattuglie delle fiamme gialle, ma le ben più ampie e capillari truppe dei clienti/consumatori. Ed a questi non serve né il tesserino, né il verbale di contestazione. Basterebbe che potessero rivolgersi ai propri professionisti (avvocati, notai, dentisti, idraulici e via discorrendo) chiedendo la fattura non per il piacere di ottenere un lauto sconto in cambio del pagamento in nero, ma per poterla portare in deduzione nella propria denunzia dei redditi.
E badi bene il nostro lettore: non con il sistema della detrazione di imposta (il 19% della fattura che viene scontato dalle imposte da pagare), che faciliterebbe il professionista nel proporre lo sconto in nero (che sarebbe, appunto, pari al 19% o, meglio ancora, all’aliquota dell’IVA che viene evasa con il pagamento in nero). Ma tramite il riconoscimento di un onere deducibile dal reddito, ripartito su di un massimo di tre/cinque anni di imposta. Così facendo, il vantaggio fiscale per il cliente/consumatore sarebbe determinato dalla propria aliquota di tassazione. Rendendo così meno agevole per il professionista il conoscere la misura dello sconto da praticare per ottenere il pagamento in nero. Lo stato vi recupererebbe da subito l’IVA, oltre alla base imponibile del reddito del professionista, da tassare.
Sentiamo già l’obiezione della Ragioneria Generale dello stato: ma così si perderebbero entrate in maniera significativa. Poco male, rispondiamo noi: sarebbe il momento buono per una cura dimagrante del Leviatano. Anche se, da incalliti pessimisti, temiamo di continuar a dar ragione, e la cosa ci spiace davvero, a Longanesi, secondo il quale la miseria italiana è la grande scusa che permette al governo di gettar via i denari.