Google guadagna più di tutta l’industria dei quotidiani: iniziate a chiudere le edicole/Parte 2
L’industria dei quotidiani non se la passa tanto bene. Forti perdite economiche, riduzione della diffusione e il crollo della pubblicità (vedi il post precedente).
In Europa, neppure le grande testate si salvano. El País, Le Monde, The Times così come il Corsera e la Repubblica presentano numeri in contrazione.
Negli Stati Uniti, dove forse la situazione è anche peggiore, sono già state chiuse centoventi testate. Il New York Times cerca finanziatori, gli editori di The Chicago Tribune e di Los Angeles Times sono in bancarotta e anche News Corp, il megagruppo di Rupert Murdoch, che pubblica il Wall Street Journal, registra perdite notevoli. Per tagliare le spese, molte testate stanno riducendo il numero delle pagine e dell’organico delle redazioni. Organico che dopo pesanti ristrutturazioni torna ai livelli numerici dei primi anni ’70
I fattori di questa crisi sono diversi. La crisi economica globale e riduzione del credito si vanno ad aggiungere ai mali strutturali del settore: inserzionisti in fuga, la concorrenza della stampa gratuita, l’invecchiamento dei lettori, l’esplosione delle fonti di informazione su Internet. E la perdita di credibilità – vedi i ripetuti scandali del NYT e i più recenti dei Tabloid britannici – di certo non aiuta.
Gli introiti provenienti dalla vendita delle copie cartacei ridotti a meno della metà dal 2006 e il 50% dei lettori (negli Usa) che fanno uso di tablet e smartphone per leggere le notizie sono due forti indizi del fatto che la stampa quotidiana persegue ormai un modello economico e industriale senescente. Un modello-dinosauro, anatomicamente e intellettualmente inadeguato alla sopravvivenza.
Paradossalmente, le news non hanno mai avuto tanto seguito come oggi. Con internet il numero dei lettori è cresciuto in modo esponenziale. Ma anche sulle altre piattaforme la domanda di informazione non vede crisi.
Le testate cartacee sono dunque alla disperata ricerca di formule per la sopravvivenza nella nuova era geologica. Si assiste ad un proliferare di modelli di profitto misti, con elementi mutuati da iTunes, richieste di micro-contributi, offerte di abbonamenti multicanale, diffusione delle app e delle partnership.
Le strategie adottate sono spesso ambidestre. Gli editori vogliono sperimentare online (poco) mentre cercano di consolidare (senza risultati) il cartaceo.
Il modello economico e industriale è però ormai stato scardinato. Negli ultimi dieci anni l’informazione digitale ha profondamente cambiato abitudini e consumi dei lettori. Social media, piattaforme di file sharing, aggregatori, hanno trasformato i lettori in produttori di notizie, distributori di informazioni, selezionatori e media critics, commentatori esigenti e competenti.
Editori e giornalisti non sempre mostrano di essere altrettanto avveduti e faticano a staccarsi dal vecchio modello economico della carta stampata. Forse anche perché un modello economico alternativo ancora non si è delineato chiaramente. Il modello di cambiamento adottato è nella maggior parte dei casi l’adattamento, un accordare lo strumento a disposizione, ma troppe volte in modo parziale, lento, e raramente flessibile.
L’industria dei quotidiani non se la passa tanto bene, quindi. Però la compagnia non le manca. È quella dei media della vecchia guardia, come il libro e il dvd.
Come i tablet, anche i lettori di libri digitali sono oggetto del desiderio di molti lettori. Negli Stati Uniti, il giro d’affari che riguarda gli ebook è già cosa seria, con una quota di mercato del 20%, mentre in Italia la fetta della torta è ancora molto piccola, ma fa sempre più gola.
Siamo agli anni ’10, e pare proprio che la carta non sarà più il mezzo di produzione del libro, e la tipografia, la rete di distribuzione e le librerie non siano più, come si dice, asset fondamentali per l’industria culturale.
Le piccole librerie di quartiere sono in estinzione, e con loro i librari-lettori-recensori, e neanche i mega bookstore non se la passano tanto bene. In Usa e UK, Amazon ha contribuito alla chiusura di Borders e alla radicale trasformazione di Barnes & Noble, mentre in Italia i megastore Feltrinelli dopo i cioccolatini si metteranno a vendere pane e focacce calde (non è una boutade).
Da Gutenberg fino a ieri la gestione del mercato dei libri risiedeva nel controllo totale dell’editore su tutti i passaggi del processo produttivo, e in parte di quello distributivo. Oggi non è più così. L’ accelerazione tecnologica e i comportamenti di consumo emergenti rendono lo scenario poco prevedibile. Cambierà il modo di veicolare i contenuti, si modificherà il sistema distributivo e dei prezzi (e cambierà perfino il modo di creare da parte degli scrittori?).
Pensare in modo nuovo significa non solo razionalizzare i costi – un approccio esclusivamente economico non risolve i problemi, se non a brevissimo termine – ma anche pensare e attuare processi innovativi. Chi oggi non riuscirà a pensare in modo nuovo e diverso è destinato all’estinzione.
Per quanto riguarda il videonoleggio, chi si ricorda l’ultima volta in cui è entrato da Blockbuster?Ammesso che se ne trovi ancora di Blockbuster. Quello del mio quartiere è diventato una palestra a vista sul traffico e chissà cosa ne sarà delle centinaia di sedi sparse per l’Italia (per non parlare delle diverse migliaia negli Stati Uniti), perché dopo una ridda di rumours ufficiosi, la verità pare sia che Blockbuster abbia imboccato la strada senza ritorno del fallimento.
Pochi anni fa aveva svuotato le sale cinematografiche e messo Hollywood in fremito ed ora eccolo qui a soccombere sotto colpi di streaming e download. Il cinema ucciso dal dvd, il dvd ucciso da Internet, è la selezione della specie.
L’arresto del pittoresco Kim Dotcom (nom de plume di Kim Schmitz) e la chiusura della suo pingue business, Megavideo, non fermerà il processo di estinzione del videonoleggio, almeno come l’abbiamo conosciuto. Il futuro è del video on demand, di iTunes e Amazon, della Google Tv e di quelle major che sapranno recuperare il ritardo con i nuovi attori del mercato.
Grande è il cambiamento e urgente. Niente sarà più come prima. La nostalgia sarà canaglia, ci saranno i cantori dei bei tempi andati del dvd, i feticisti del blu ray, gli scambisti dei videobox, come ci sono i bibliomani accatastatori, i narcisi della libreria domestica e i maniaci olfattivi del cartaceo. Ognuno di noi ha le proprie debolezze, ma ciò non fermerà il processo evolutivo.
Naturalmente non si estinguerà il giornalismo in sé, come non si estinguerà la cultura del libro né la magia del cinema, ma solamente modelli produttivi e distributivi inadeguati.
Capire che ne sarà di tra vent’anni queste industrie, delle aziende che vi operano e dei prodotti a cui siamo in qualche modo affezionati è materia da futurologi. L’evoluzione potrebbe procedere con lenti aggiustamenti per l’adattamento alle nuove condizioni con una parte di industria che transita con successo verso il mondo digitale, una parte che non trova spazio nella transizione, mentre un’altra parte trova il suo habitat in una nicchia di sopravvivenza. Come è successo per esempio per la musica su vinile, che pur superato come supporto tecnologico sopravvive nel florido micromercato dei nostalgici del fruscio e dei maniaci degli screcci sui solchi.
Oppure il grande cambiamento potrebbe avvenire per grandi balzi, in analogia con le teorie dell’evoluzione neo-darwiniste. Balzi verso scenari con differenti paradigmi e nuovi attori. In cui potranno sopravvivere solo quelle aziende della vecchia guardia capaci di ri-crearsi. La “teoria degli equilibri punteggiati” di Gould, che descrive il cambiamento evolutivo come l’alternanza di lunghi periodi di stasi intercorsi da salti rapidissimi sembra efficace nel descrivere il panorama attuale della trasformazione radicale portata dal digitale dopo secoli di aggiustamenti incrementali al paradigma gutemberghiano.
Un’altra teoria in opposizione a quella classica gradualista che presuppone un’evoluzione per piccoli passi, è quella dei “mostri speranzosi” di Goldschmidt, per cui nuovi tratti evolutivi possono originare rapidamente attraverso macromutazioni (spesso causate da riarrangiamenti cromosomici e/o da mutazioni avvenute durante lo sviluppo). La maggior parte di queste mutazioni porterebbe rapidamente alla morte degli organismi “mostruosi”, ma una piccola percentuale dei mutanti si troverebbe ad essere più adattata al proprio ambiente dei suoi conspecifici, e il fortunato mutante in quel caso diverrebbe il fondatore di una nuova linea filogenetica.
Se questa teoria è applicabile per analogia, avverrà che per molti progetti di innovazione radicale nell’editoria o nella distribuzione di video che falliranno, ci saranno altri “mutanti” che diventeranno invece trainanti per la riconfigurazione delle industrie della vecchia guardia.
Le teorie neo-darwiniane stesse non escludono però che il cambiamento possa avvenire nello stesso momento sia a piccoli passi che a grandi balzi. E così avverrà probabilmente anche per l’industria dei quotidiani, dei libri e del video.
In che modo, non è facile prevederlo. In attesa di intuirne le direzioni evolutive, gli strateghi e i decisori delle industrie della vecchia guardia farebbero bene a studiare le teorie darwiniane e neo-darwiniane, chissà che non ne possa venire qualche utile suggestione.
Leggi la parte 1: Fattoidi e penne d’uccello
Prossimo post – Parte 3: Cosa i quotidiani possono imparare dall’industria del porno.