In questi tempi, in cui i bilanci delle imprese, delle famiglie e degli stati si fanno sempre più ristretti, fallacie economiche confutate centinaia di volte ma ripetutamente resuscitate dalle loro ceneri stanno tornando di nuovo in voga.
La fallacia più frequente è che l’economia è una questione di spesa: che la crisi c’è perché si spende di meno e il boom c’è perché si spende di più. Questa teoria, marchio distintivo di demagoghi per secoli e secoli, è stata trasformata in qualcosa di rispettabile dal keynesismo, e consiste nel considerare ogni spesa come equivalente. Un euro speso in pupazzi di peluche e un euro speso nella costruzione di centrali elettriche sono equivalenti, perché l’unica cosa che conta è la spesa totale. Gli sprechi sono spesa tanto quanto i guadagni di efficienza, e il consumo e l’investimento sono modi equivalenti di spendere (quando non si considera per spesa solo il consumo, cosa che a volte accade).
Se in un ragionamento economico non c’è differenza tra finanziare un progetto di ricerca per produrre energia a basso costo o lo scavare buche nel terreno per poi riempirle subito dopo, qualcosa manca all’appello. Si ha un ragionamento da contabile, e non da economista.
Si parla di spesa pubblica, e di norma si danno cifre aggregate senza distinguere tra spesa in conto corrente, di fatto consumi, e spesa in conto capitale, cioè investimenti pubblici. La spesa corrente – quella che serve per comprare voti alle elezioni – è una massa incomprimibile, perennemente in crescita, e che contribuisce di norma negativamente allo sviluppo economico. La spesa in infrastrutture o educazione, se oculata, è invece potenzialmente foriera di crescita. Non sempre: basta pensare alla quantità enorme di risorse sprecate per la Cassa del Mezzogiorno. Comunque la spesa totale non ci dice nulla sull’economia sottostante.
Lo stesso vale nel settore privato: il consumo non è crescita, ma è, appunto, consumo. Gli investimenti sono crescita, perché permettono l’accumulazione di capitale e dunque l’incremento della capacità produttiva. Come minimo bisogna fare questa distinzione, quando si parla di spesa. E non tutti gli investimenti sono poi produttivi: le centinaia di miliardi buttati in immobili negli USA, in Cina o in Spagna sono un evidente esempio di investimento che non contribuisce alla crescita.
Quando si dice che siccome c’è eccesso di offerta nel settore immobiliare bisogna aumentare la domanda, bisogna chiedersi come mai non c’è domanda: costruire cose inutili non è crescita, e la domanda artificiale di beni inutili rallenta semplicemente l’aggiustamento della struttura produttiva.
Quando ci si lamenta che i soldi della spesa pubblica sono domanda e quindi i tagli sono recessivi, non si coglie il punto economico fondamentale: sono domanda improduttiva, per la maggior parte, e dunque se si liberano risorse dal settore pubblico per fare investimenti sensati si aiuta l’economia. Non è detto che ciò sia vero per la spesa in conto capitale, ma lo è quasi certamente per quella in conto corrente.
Non subito, dato che spostare risorse ha dei costi, ma i tagli alla spesa aumentano la quantità di risorse disponibili per incrementare la capacità produttiva, e consentono di finanziare tagli alle tasse che aumentano gli incentivi a produrre: tagliare spese inutili fa sempre bene all’economia, perché ne aumenta l’efficienza e dunque la capacità produttiva.
Queste banalità sono di norma dimenticate quando si ragiona di economia nel dibattito pubblico: forse è meglio in questi casi dedicarsi al campionato di calcio, la qualità delle discussioni di politica ne gioverebbe.
Pietro Monsurrò