La situazione politica in Italia è grave ma non è seria, amava ricordare il nostro rivale in pessimismo Ennio Flaiano. L’ultima settimana ce ne ha fornite plurime conferme.
Dall’on. Bersani che si aggrappa alle figure retoriche pur di difendere un risultato in realtà assai magro, con la palma d’oro al commento sul successo grillino di Parma: qui, ha detto Bersani, il PD non ha perso, “ha non vinto”. Per capolavori simili la memoria deve tornare indietro ai bollettini di guerra d’epoca fascista, con le loro amplificazioni eroicomiche.
Sino ad arrivare alla novità delle novità: il ritorno in politica dell’Achille Lauro della Brianza, abilissimo come sempre nel fiutare il momento e presentarsi con la maschera adatta, questa volta rispolverando i panni del padre nobile costituente e rifondatore di se stesso.
Ma di gran lunga la migliore ci pare esser stata l’invocazione, lanciata dalle colonne del Corriere della Sera da Pierluigi Battista, dell’impegno di Luca Cordero di Montezemolo. In realtà Battista, un commentatore con rare doti da sismografo, avrebbe potuto limitarsi ad indirizzare a Montezemolo l’esortazione lanciata da Manlio Lupinacci all’on. de Nicola, quando gli venne offerta la presidenza della neonata Repubblica: “decida di decidere se accetta di accettare”.
Perché di una possibile, probabile discesa in campo del presidente della Ferrari si parla da fin troppo tempo.
La risposta di Montezemolo non si è fatta pregare, ma da novello Signor Tentenna, si è espresso senza chiarire quale sia la sua effettiva volontà.
Ci ha però scodellato un lungo brodo riscaldato, e piuttosto scipito, di speranze, aspettative, necessità che sarebbero, par di capire, la medicina per questo Paese male in arnese.
L’idea forte sarebbe “la riduzione del perimetro dello Stato”. Che, tradotto per i nostri lettori, starebbe a dire: una riforma liberale dello Stato e del suo rapporto coi cittadini.
Siamo, nella sostanza, all’ennesima proclamazione della necessità di una rivoluzione liberale.
Non si dica che siamo incontentabili, o degli accigliati diffidenti per partito preso, ma a noi questa ennesima proclamazione suona, da un lato, illusoria e, dall’altro, frusta.
Sono oramai diciotto anni che paghiamo a piè di lista i risultati della rivoluzione liberale più volte annunciata a destra e, seppur a corrente alternata, a manca.
E non sarà l’ennesimo recupero di questa hurrà word, pur pronunziata con toni sofisticatamente affettati ed arrotati, ad illuderci.
Perché i vari tentativi già visti sono spiaggiati non per colpa del destino ingrato, ma per alcuni limiti intrinseci che non ci pare siano adeguatamente compresi.
E si tratta di limiti tutti politici.
Come affermò l’ex governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, la costituzione economica dell’Italia repubblicana fu scritta ed applicata al di là, e ben al di fuori, del testo costituzionale ufficiale. La Costituzione repubblicana, infatti, nasceva con una malcelata diffidenza nei confronti dell’economia di mercato, stretta com’era, anche in termini parlamentari, tra la dichiarata e palese posizione anticapitalista delle forze della sinistra, ed il sospetto e pregiudizio antieconomico tipico della cultura cattolica. Fu solo la lungimiranza politica di De Gasperi a far in modo che le leve del comando economico, non solo del governo, ma anche delle massime istituzioni finanziarie, venissero affidate alle competenti cure di una tecnocrazia, imbevuta di cultura politica ed economica liberale, della quale fecero parte i vari Einaudi, Carli, Baffi, La Malfa, Merzagora, Vanoni e via discorrendo.
A questi, e con alterne fortune, venne affidato il compito di erigere le fondamenta di quella costituzione economica che fu, per molti versi, significativamente discontinua rispetto al cotè culturale delle principali forze politiche italiane.
Tanto che quando venne meno la protezione di De Gasperi, e al Quirinale salì un Gronchi qualsiasi, finì il tempo delle pere indivise, ovvero della morigeratezza e della prudente gestione, ed iniziò l’assalto alla diligenza e si riaccesero le trivelle.
Quanto nel 1947, l’allora ministro del Bilancio Einaudi domò l’inflazione galoppante che affamava le classi indigenti ed arricchiva i nuovi pescecani del mercato nero, lo fece con una misura “monetarista” ante-litteram: la stretta creditizia. E lo fece nonostante gli strali dei partiti di sinistra che lo accusavano di affamare il popolo.
Quanto nel 1951, l’allora ministro del Commercio estero La Malfa portò a termine la liberalizzazione degli scambi, primo tassello della costruzione europea, i modesti padroni del vapore italiani lo osteggiarono accusandolo di colpire a morte l’impresa italiana, abituata a crescere, inefficiente e spesso improduttiva, alle spalle del potere governativo di turno, disponibili a vestire l’orbace con la cimice all’occhiello, ma non di sottomettersi alla legge ferrea della concorrenza.
Morale: la definizione puntuale e precisa dei compiti dello Stato, ed i suoi limiti nei confronti della società e del cittadino, quando avvenne in chiave concretamente liberale, si realizzò per un accidente della storia e, piaccia o non piaccia, per la volontà di un manipolo di valentuomini che avevano trovato la protezione, tutta politica, non della Democrazia Cristiana, ma dello sguardo lungo degasperiano.
Più di recente, in Italia, furono davvero in pochi a difendere la versione originaria della direttiva sui servizi nel mercato interno proposta dal Commissario Bolkenstein nel 2006, tanto che la sua portata venne conseguentemente ridotta sotto la minaccia, sollevata ad arte dagli statalisti e dai protezionisti di ogni risma e di ogni partito, del famigerato idraulico polacco.
Abbiamo riportato alla memoria questi esempi per ricordare come in Italia non manchino, e non siano mai mancate, le idee più o meno liberali, e le conseguenti proposte di riforma. E lasciamo perdere il caso di Montezemolo che un dì al mattino propone la tassazione straordinaria dei patrimoni, alla faccia della riduzione del perimetro dello Stato, il pomeriggio rivendica la novella rivoluzione liberale, e la sera dichiara che lui non farà politica.
Non mancano, dicevamo, le idee liberali. Manca la capacità di costruire su di esse quel consenso necessario per realizzarle, ovvero la capacità di fare politica, da noi facilmente sostituita dalla contraffazione della politica che è il maneggio quotidiano, la ruffianeria e l’interessenza.
Ed è mancata, sempre, un’opinione pubblica capace di apprezzare e sostenere una politica liberale: non erano liberali coloro che impedirono l’abrogazione referendaria della legge Mammì (responsabile del duopolio televisivo e dello stato catatonico dell’informazione italiana), come non erano liberali coloro che votarono a favore della sua abrogazione solo per spirito vagamente espropriativo. E non erano liberali tutti coloro che hanno votato contro la liberalizzazione dei servizi pubblici locali (contrabbandata come referendum sull’acqua) non più tardi di un anno fa. Questi i dati di fatto.
Non a caso, le più forti maggioranze numeriche della storia della repubblica non sono bastate, nel 2001 ed ancora nel 2008, per realizzare non diciamo la mitica rivoluzione liberale, ma per evitare l’ignominia della quale siamo stati tristi testimoni.
A noi pare che Montezemolo, che è sicuramente un buon poster patinato, fosse buono al più per il carnevale permanente in cui sguazzava il tardo impero berlusconiano. Un po’ meno adatto alla lunga quaresima montiana e, verosimilmente, post-montiana.
Ci sia consentita un’esortazione e una chiusa. Proponiamo, per decenza, una moratoria del termine liberale, oramai a tal punto inflazionato da rischiare di finire fuori corso.
E si abbia la creanza di ricordare quanto scrisse oltre cent’anni fa un liberista al tempo coerente, Vilfredo Pareto: “quando qualche storico imprenderà, nel futuro, di narrare la miseria degli anni presenti, è pregato di non darne colpa alla libera concorrenza, perché, quella libera concorrenza, gli italiani non sanno nemmeno dove stia di casa. Sarà, se si vuole, cosa pessima e malvagia, ma infine non si può ad essa dare colpa di quei mali che seguono dove essa non esiste”. Non per altro, ma per evitare confusione e cacce alle streghe.
Se Montezemolo deciderà, al fine, di decidere, lanci pure il suo riformismo cachemire e si accontenti di fare ciò che gli riuscirà. Lasciando in pace il compianto liberalismo, in realtà così poco di moda in un paese volubile come il nostro.