Nel mirinoFotografia Europea a Reggio Emilia

A Palestine Woman returning to the ruins of her house, Sabra, Beirut, 1982 - Photo by Don McCullin/ Contact Press Images    Venerdì e sabato sono stata a Reggio Emilia per il Festival della Fotogr...

A Palestine Woman returning to the ruins of her house, Sabra, Beirut, 1982 – Photo by Don McCullin/ Contact Press Images

Venerdì e sabato sono stata a Reggio Emilia per il Festival della Fotografia Europea.

Il festival, giunto alla sua settimana edizione, inaugurava proprio questo weekend con oltre 250 sedi espositive, 400 fotografi coinvolti, conferenze, workshop, incontri, proiezioni, letture portfolio, spettacoli, 150 mostre nel circuito off e 70 mostre collegate, insomma una città in festa.

L’atmosfera della città emiliano era magica, le piazze affollate, mostre aperte la sera fino alle 23, musica per strada, il pubblico itinerante amante della fotografia che è bello incontrare in giro per il mondo ai diversi appuntamenti internazionali.

Per chi si fosse perso questo weekend le mostre proseguiranno fino al 24 giugno.

Un festival significativo quello di Reggio Emilia che è costato 700.000 euro, di cui più della metà finanziati da sponsor privati ma il resto stanziato dal Comune, un investimento culturale non indifferente da premiare in un momento difficile come questo.

L’edizione precedente di “Fotografia Europea” ha raggiunto oltre 100.000 presenze e le proposte interessanti di quest’anno fanno pensare in un consolidamento dei risultati passati.

Il festival nasce sette anni fa proprio da un’idea della lungimirante amministrazione comunale che si è poi affidata negli anni a diversi curatori fra i quali un posto particolare è occupato da Elio Grazioli, stimato critico d’arte e docente universitario, deus ex machina della manifestazione.

Ma l’amore di Reggio Emilia per la fotografia ha solide origini, il comune infatti gestisce l’archivio del grande fotografo Luigi Ghirri e ha dato i natali a molti talenti fotografici fra cui Erik Messori che mi ha fatto da cicerone in questi due giorni, Simona Ghizzoni, Marco Manfredini, Paola de Pietri, Vasco Ascolini, Stanislao Farri, Marcello Grassi e Fabrizio Orsi.

Quest’anno la rassegna ha scelto come tema chiave la vita comune: “immagini per la cittadinanza”, declinata
in quattro prospettive diverse: cambiamento, luoghi comuni, partecipazione e differenze.

Non posso ovviamente raccontarvi tutto mi limiterò a 3 mostre, la prima che ho visto arrivata venerdì sera è “Des Européens” allestita ai Chiostri di San Domenico, che raccoglie gli scatti realizzati nel corso dei numerosi viaggi in Europa tra il 1929 e il 1991 dal leggendario Henri Cartier-Bresson, la mostra è curata da Contrasto, Magnum Photos e Fondation Henri Cartier Bresson.

Trieste, Italy, 1933 – Photo by Henri Cartier-Bresson

In “Des Européens” possiamo ammirare alcune fra le immagini più note di Bresson ma anche molte meno conosciute e ripercorrere oltre mezzo secolo di storia, notando le profonde differenze ma anche le notevoli similitudini tra i diversi paesi attraversati e personaggi incontrati quando le strade venivano usate prevalentemente per camminare e la gente si prendeva delle pause, i bambini saltavano nelle pozzanghere, e le curve delle donne erano morbide e sensuali.

Valencia Province, Alicante, Spain, 1933 – Photo by Henri Cartier-Bresson

I protagonisti delle foto di Bresson sono per lo più gente comune, i contadini abruzzesi con i loro mantelli, i preti polacchi in sottana, i borghesi della city con le loro bombette e le contadine dell’Algarve con i loro scialli. Tutti, dal mendicante al banchiere, dalla fruttivendola all’accademico, con una dignità e un’eleganza impossibili da ritrovare negli scatti delle strade contemporanee.

Lieve e profondo Bresson, invisibile e corporeo, effimero ed eterno.

Dall’Europa del passato di Bresson passiamo alla Russia contemporanea negli scatti di Igor Mukhin, una delle mostre allestite ai Chiostri di San Pietro e curata da Elio Grazioli.

Moscow, 2009 – Photo by Igor Mukhin

Mukhin, russo, classe 1961, è forse un autore meno conosciuto ma le sue fotografie sono sorprendenti, di quelle che sarebbero molto piaciute a Roland Barthes che vi avrebbe sicuramente individuato diversi casi di “punctum”.

Le fotografie di Mukhin tutte in bianco e nero hanno per oggetto la generazione della Russia post-sovietica.

Moscow, 2009 – Photo by Igor Mukhin

Mukhin potrebbe essere un giovane Bresson, per la composizione, i diversi livelli, i tagli e l’intelligenza delle sue immagini.

Le sue immagini raccontano di una generazione di giovani in bilico, che hanno vissuto il passaggio dal comunismo al capitalismo e che non hanno ancora un’identità precisa, combattuti fra i falsi miti occidentali e la nostalgia del passato in un paese che ad oggi non ha concluso la sua trasformazione.

Ho lasciato per ultima la mostra che ho amato di più: “Don McCullin: la pace impossibile. Dalle fotografie di guerra ai paesaggi 1958-2011” allestita a Palazzo Magnani e curata da Robert Pledge e Sandro Parmiggiani.

La mostra proseguirà fino al 15 luglio.

McCullin è un mito indiscusso della fotografia del Novecento e questa mostra, con oltre 160 immagini di cui molte inedite, ripercorre tutte le tappe della sua carriera professionale.

The Guvnors gangin Finsbury Park, London, 1958 – Photo by Don McCullin/ Contact Press Images

Don McCullin è nato a Londra nel 1935, dopo un’ infanzia e un’adolescenza durissime, nel 55 presta servizio militare nella Royal Air Force, acquista la sua prima macchina fotografica e realizza il suo primo servizio fotografico su una gang londinese. Quando nel 1961 inizia la costruzione del muro di Berlino, con i pochi soldi che ha risparmiato compra un biglietto aereo e si reca nella capitale della DDR con l’idea che “Qualcosa stava succedendo e dovevo esserci. Ecco quello che ho sempre cercato di fare: esserci” (Don McCullin da Zoom 1972).

Turkish women with her son learns the death of her husband killed by Greek militia, Limassol, Cyprus, 1964 – Photo by Don McCullin/ Contact Press Images

Twenty-four-year old mother and child, Biafra, Nigeria, 1969 – Photo by Don McCullin / Contact Press Images

Da allora McCullin sarà inarrestabile, documentando tutte le vicende sociali, civili e i conflitti in ogni parte del mondo, dagli scontri tra Greci e Turco-Ciprioti a Cipro (1964) alla guerra in Congo, la lunga guerra del Vietnam, la guerra civile e la carestia in Biafra (1968-69); la guerra nella Cambogia dei Khmer Rossi (1970-75); la guerra civile in Irlanda del Nord (1971); il colera nel Bangladesh (1971); la feroce guerra tra milizie cristiane e palestinesi in Libano, fino ai massacri di Sabra e Shatila (1982); i lebbrosi e i poveri dell’India (1995-97); le vittime dell’Aids e della tubercolosi nell’Africa meridionale (2000).

Early Morning, West Hartlepool, County di Durham, 1963 – Photo by Don McCullin / Contact Press Images

Incalcolabili i premi vinti, dal World Press Photo alla Warsaw Gold Medal, al Cornel Capa Award, dagli anni ’90 indelebilmente segnato dagli orrori di cui è stato testimone abbandona il reportage per dedicarsi al paesaggio e le nature morte.

“La guerra mi ha insegnato a pensare in modo più aperto all’umanità e a come essere Uomo. Immagina di guardare negli occhi una persona che sta per essere giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla, ma tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una pietra. Non stiamo parlando di fotografia adesso, ma di una responsabilità molto più grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di colpa. Per questo cerco di allegerirmi da quel carico facendo fotografie di nature morte e di paesaggi”.

Still life, 1989 – Photo by Don McCullin / Contact Press Images

Nel percorso espositivo si arriva alle nature morte e ai paesaggi alla fine, dopo aver visto i Teddy Boys, i Beatles ma soprattutto tutti gli orrori, le ultime due stanze della mostra funzionano un po’ da camere di decompressione, un limbo meditativo fuori dal tempo e dai fatti della vita.

Somerset, UK, 1991 – Photo by Don McCullin / Contact Press Images

Sono rimasta molto colpita da queste immagini di McCullin, perchè sono di un’accuratezza notevole, gli still life sono perfetti, ogni goccia di acqua su un acino di uva è ben visibile, la tecnica è ineccepibile anche nei paesaggi, fotografati sempre e solo d’inverno, all’alba o al crepuscolo, perché McCullin ormai il buio ce l’ha dentro, è ineliminabile e forse proprio per questo è capace di generare immagini dove il senso di pace è assoluto, totale.

“È difficile associare la parola dignità alle situazioni che io fotografo, e tuttavia dignità è ciò che cerco di mostrare. La trovo in maggior misura nelle persone che soffrono di più. Ma allora, essendo stato testimone di tutte quelle sofferenze, e avendone condivise alcune, non arrivi alla conclusione che la sofferenza è qualcosa che appartiene alla nostra vita, che tutti noi dobbiamo affrontare? Il che non significa dire che il dolore di cui sei stato testimone dovrebbe essere considerato inevitabile” (Don McCullin da Entre Vues, 1968/69).

The construction of the wall, West Berlin, August 1961- Photo by Don McCullin / Contact Press Images

McCullin è davvero un grande saggio e un fotografo incredibile a 360°, difficile davvero ogni paragone, capace di raccontare la moda dei Teddy Boys ma anche il paesaggio e la natura morta e sopratutto le atrocità con immagini senza compromessi che vanno dritte al punto, in cui i neri hanno un ruolo preponderante, i contrasti tra luce e ombra sono molto forti e la costruzione dell’immagine è tale per cui cui ogni elemento sembra essere esattamente al punto giusto, in qualsiasi condizione di lavoro, dal caos disordinato della guerra ai ritratti dei giovani della Swinging London.

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