Trenta denariLa barzelletta del sindaco di Siena: «La politica fuori dalle banche»

Il gattopardo è un animale che può vivere a ogni latitudine. A Siena, per esempio, ha trovato un ottimo microclima. Da mesi il sindaco dimissionario di Siena Franco Ceccuzzi cerca di accreditarsi c...

Il gattopardo è un animale che può vivere a ogni latitudine. A Siena, per esempio, ha trovato un ottimo microclima. Da mesi il sindaco dimissionario di Siena Franco Ceccuzzi cerca di accreditarsi come alfiere della discontinuità rispetto a quel groviglio di interessi, commistioni, ambizioni e incompetenza, che ha portato sul lastrico la Fondazione Mps e messo alle corde l’omonima banca.

Il tentativo di Ceccuzzi e dei suoi sodali sta già producendo effetti surreali, mentre infuria la faida – ex diessini contro ex margheritini – fra fazioni del Partito democratico senese e toscano, con riflessi anche sull’amministrazione comunale senese che non ha ancora approvato il bilancio 2012. Ieri, a una manifestazione cittadina del partito, Ceccuzzi ha detto che «la politica non deve stare nelle banche, neanche a Siena». Ora se a Siena c’è un politico locale che più di ogni altro ha manovrato sulla banca quello è proprio Cecuzzi.

Da funzionario del Pds-Ds fu lui a tessere la tela che portò Giuseppe Mussari alla presidenza della Fondazione Mps nel 2001. A livello locale, avevano l’appoggio di Franco Bassanini e Luigi Berlinguer, a Roma di Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Avevano promesso di portare a termine la fusione Mps-Bnl, un pallino della finanza di matrice Ds, che però poi non avvenne. Di Mussari, Ceccuzzi è stato testimone di nozze. Negli ultimi dieci anni a Siena non si è mossa foglia che i due compari non volessero. Al tavolo c’erano anche gli “ex margheritini”, che fanno capo ad Alberto Monaci, oggi presidente del Consiglio regionale della Toscana. A loro è toccata, per esempio, la presidenza della Fondazione Mps: da questa posizione Gabriello Mancini, già ex segretario provinciale della Democrazia Cristiana e luogotenente di Monaci, ha assecondato il gioco della coppia Mussari-Ceccuzzi, e nulla ha avuto da obiettare sulla fatale acquisizione di Antonveneta per 10 miliardi di euro. Per mettere una pezza sui debiti, la Fondazione è stata costretta a vendere una parte del suo pacchetto, scendendo dal 50% al 33%, quota che è destinata inesorabilmente a ridursi, checché raccontino a Siena.

Rispetto a tutto questo, Ceccuzzi se ne esce ieri con una frase di puro non sense«Come fosse colpa nostra e non il frutto di un errore passato». Ma l’errore passato chi l’ha fatto? I novelli alfieri della discontinuità e i loro vecchi alleati-ora-avversari. Tutti arroccati a difesa delle posizioni: dentro e fuori la banca. A Rocca Salimbeni, infatti, anche dopo l’arrivo del neo presidente Alessandro Profumo (è uno degli 80 soci de Linkiesta), restano ben salde le colonne portanti dell’era mussariana: da Valentino Fanti (segretario del cda dal settembre 2006 e capo della segretaria di presidenza e direzione generale) ai due vicedirettori generali Fabrizio Rossi (capo del personale e snodo dei poteri interni della banca) e Antonio Marino (corporate banking) al capo delle relazioni esterne David Rossi, sodale ultradecennale di Mussari, con il quale aveva lavorato a suo tempo per conto del Comune. 

A Siena, comunque, a parte la locale Procura, nessuno ha voglia di fare i conti davvero con quello che è successo negli ultimi cinque anni. Cominciando dall’acquisizione di Antonveneta: quel qualcosa accaduto d’improvviso e che, scherzava Galbraith, ha separato il denaro dagli sciocchi. 

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