Dice Allison Pearson, giornalista americana (nel pezzo che riporto sotto), che servono sceriffi per il Web. Meglio, un sistema di regole che tuteli i più deboli dagli attacchi dei violenti, dei malvagi, di quanti si prendono la libertà di offendere e attaccare verbalmente le persone sulla Rete. Dicono in Commissione Europea che servono regole certe per la tutela del copyright sul Web. Dicono, a Londra, che debba essere possibile, per la polizia, poter tracciare, leggere e seguire la navigazione e le email dei cittadini inglesi “per motivi di sicurezza”.
Dicono, in Italia, che se qualcuno apre una web tv senza essere un giornalista, fa “esercizio abusivo della professione” e rischia la galera. Cosa c’entrano tutti questi episodi insieme? Semplice, sono tutti sintetizzati, nel dibattito, come “libertà della rete sì, libertà della rete no”. E il problema è proprio lì: nel far rientrare tutto in un unico dibattito, in un’unica definizione “la rete non può essere assolutamente libera”. Il che si contrappone a quanti, dagli hacker della prima ora ai net-fan dell’ultima, sostengono, invece, che debba essere “assolutamente libera”. Un dibattito falso e fuorviante, che nasconde dietro alla presunta “novità” della Rete altri interessi.
La rete non è altro che l’estensione della società nel digitale. Chi ti insulta in Rete non è diverso dal bifolco che lo fa per strada perché ritiene che tu gli abbia tagliato la strada. Chi utilizza argomentazioni razziste, xenofobe o di intolleranza razziale non è diverso da quanti lo fanno dal palco di un comizio politico. Comici che usano battute volgari e attaccano disabili gli Stati Uniti ne sono pieni. Insomma il Web è, a tutti gli effetti “LA” società, ne è lo specchio, l’estensione digitale.
Certo, Internet è disintermediato, senza barriere spazio temporali, permette a tutti di attaccare tutti e di farlo “in pubblico” ma gli strumenti legali per difendersi esistono già. La giornalista americana parla di twitter e questa piattaforma di microblogging impedisce l’anonimato. Così, di quello che dici ti assumi la responsabilità. Sta poi alla “vittima” decidere se reagire per tutelarsi o meno. Non è questo, quindi, un argomento valido per sostenere la necessità di uno “sceriffo” della Rete. Chi dovrebbe intervenire? Con quali mezzi? Chi stabilisce il limite fra critica legittima e insulto? Non è una soluzione introdurre il reato d’opinione in Rete e, soprattutto, eleggere un censore, nominare qualcuno che decida cosa sia lecito e cosa no.
Discorso diverso è la possibilità di monitorare le mail e la navigazione, così come pretende la polizia inglese. E la privacy? E allora perché è necessario farsi autorizzare da un magistrato per intercettare una telefonata o la corrispondenza e non per leggere le email o tracciare i siti visitati?
Insomma, il Web non è un pianeta alieno, siamo noi, è la nostra socierà, lo specchio della nostra civiltà e la sua presunta diversità non può e non deve diventare un alibi per calpestare diritti e regole che già esistono e che sono garantiti in ogni Paese democratico.
Internet è sì diverso perché è, contemporaneamente, media e strumento di comunicazione, è amplificatore e trasmettitore ma è, pur sempre, la declinazione digitale della nostra società e, come tale, vi trovano albergo, tutela ed esistenza i medesimi diritti e doveri che regolano la convicenza civile offline.
Parliamo di adeguamento delle leggi ai nuovi scenari, tecnologici, spalancati dal Web ma senza toccare i diritti fondamentali e, soprattutto, senza nascondere dietro presunte tutele “diverse”, l’obiettivo di mettere un bavaglio alla Rete
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IL SELVAGGIO WEB SENZA CON-TROLL-O – NELLA PIAZZA VIRTUALE SENZA LEGGE NÉ MORALE, ORMAI SI VEDE (E SI LEGGE) DI TUTTO
Articolo di Allison Pearson per “The Daily Telegraph” pubblicato da “il Fatto quotidiano” – Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Quando il 17 marzo Fabrice Muamba cadde a terra svenuto durante una partita di calcio, sullo stadio calò una cappa di silenzio e di angoscia. Mentre medici e paramedici si affannavano sul corpo esanime del ventitreenne campione del Bolton per strapparlo alla morte, in un’altra parte del Paese un giovane ebbe una reazione di segno opposto. Lo studente di Swansea Liam Stacey andò su Twitter e scrisse “E vai!!! Fabrice Muamba è morto!”.
Quando, sempre sul social network, gli fu chiesta ragione della sua insensibilità, il ventunenne studente di Biologia rispose con una raffica di oscenità e di commenti razzisti. Poi, come fanno spesso i troll di Internet (il “troll” è una persona che su Internet interagisce con gli altri utenti in modo provocatorio, irritante, offensivo, ndt), quando vide la mala parata si giustificò dicendo che quei commenti erano stati postati da un hacker.
Per fortuna è più difficile cancellare una pagina Twitter che ingannare la propria sporca coscienza e Liam Stacey è stato arrestato. Martedì scorso è comparso in tribunale, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato a 56 giorni di reclusione. Una sentenza alquanto dura per un semplice imbecille. Debbo ammettere che, avendo passato qualche guaio a causa dei troll che agiscono in rete, me ne sono rallegrata. Una volta tanto un cretino, un malvagio era stato privato dello schermo garantito dall’anonimato e tutti hanno potuto vederlo per come realmente è: tremante e piagnucolante in tribunale. Niente più “e vai!”, eh Liam?
Questo caso è in qualche modo uno spartiacque. Siamo in presenza, come hanno detto alcuni, di una reazione eccessiva e di un attacco alla libertà di parola? Oppure la sentenza del tribunale è il segno che la nostra società ne ha abbastanza e comincia a imporre qualche regola di umana decenza anche nelle praterie di Internet dove non esistono né legge né diritto? C’è persino chi scomoda la famosa frase, attribuita a Voltaire, “disapprovo quello che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo”.
Non mi unisco alla schiera dei voltairiani di complemento per aver visto sulla mia pelle che la cultura del “tutto è permesso online” è il passaporto dei bulli, degli amorali che terrorizzano i deboli, insultano i forti e dissacrano i morti. Vi racconto cosa mi è successo.
Un paio di settimane fa mi sono occupata di Tony Nicklinson, l’uomo completamente paralizzato a causa di un ictus, che ha chiesto alla Corte Suprema di poter porre fine ai suoi giorni. È una questione delicata e controversa. Si trattasse di una persona che amo, avrei la tentazione di staccare la spina assumendomene responsabilità e conseguenze.
Ho scritto onestamente quello che pensavo e cioè che il diritto di morire non può essere stabilito dalla legge. Liberi gli altri di non concordare con il mio punto di vista, naturalmente. Nei giorni seguenti sono stata sommersa da una valanga di email equamente divise tra chi concordava con me e chi si diceva in disaccordo. Poi su Twitter ho trovato un insulto pesante a me come persona e come donna. Ne sono rimasta sconvolta. Il tizio era un certo Doug Stanhope.
Perché non poteva manifestare il suo dissenso senza darmi della troia? Risposi a Stanhope facendo presente che poteva definirmi disinformata, anche stupida, ma non troia.
Sono poi venuta a sapere che Doug Stanhope è un “comico” americano, il cui mestiere evidentemente è quello di offendere ed essere sgradevole. Volete un esempio? Vi accontento subito. Ecco come in un suo numero Doug Stanhope parla del figlio di Sarah Palin affetto dalle sindrome di Down: “Scaraventa nel cesso quello spastico ritardato!”. Al confronto il successivo tweet a me indirizzato aveva il suono di una dichiarazione di Fred Astaire a Ginger Rogers: “Allison Pearson, sono diventato cristiano solo per pregare che ti venga un cancro alle ovaie”, mi ha scritto.
Stanhope ha 83.000 followers su Twitter e ho avuto modo di tracciarne una sorta di identikit: per lo più maschi nordamericani intorno alla ventina o poco più con nomi quali Bradley, Ryan e Monster. Nemici della grammatica e della sintassi, nelle foto hanno il volto coperto, portano occhiali da sole smisurati e sfoggiano una espressione degna di Jack Nicholson in Shining. Non sto a ripetervi la pioggia di oscenità e volgarità che mi hanno rovesciato addosso arrivando ad augurarmi di avere un figlio tetraplegico e una morte lenta e dolorosa.
A volte Twitter è come il bar vicino casa dove fare due chiacchiere e provare quella sensazione che il poeta Louis Mac-Neice definì “l’ebrezza alcolica della varietà delle cose”. Ma poi mi sono imbattuta nei troll che, chiedo scusa a MacNeice, definirei “l’oscenità di una varietà di mascalzoni ubriachi”.
Liam Stacey evidentemente abita in un universo morale diverso da quello di Muamba e, virtualmente, si è comportato come chi prende a calci in faccia un uomo che giace a terra inerme. Io posso difendermi. Ma che ne è di chi è giovane, fragile, vulnerabile?
La BBC ha trasmesso di recente un eccellente documentario di Richard Bacon nel quale si parla di un fenomeno finora poco indagato: il numero crescente di adolescenti che si suicidano per avere subito una qualche forma di “violenza” su Internet. A quelli che vengono presi di mira dai troll do un consiglio: fate finta di niente e aspettate che il pazzo se la prenda con qualcun altro.
“Internet era migliore quando non era frequentato dalla cosiddetta gente normale”, si è lamentato, con involontaria saggezza, uno dei miei troll. Naturalmente per migliore, intendeva peggiore. Come il Selvaggio West, Internet è una nuova, eccitante frontiera che ha bisogno di sceriffi. I troll debbono pensarci due volte prima di vomitare la loro immondizia.
Eppure, malgrado tutto, credo che Liam Stacey non avrebbe dovuto essere messo in prigione. Gli avrebbe fatto meglio essere costretto ad andare in ospedale e vegliare accanto a quel bravo ragazzo di Fabrice Muamba che lottava tra la vita e la morte.