Già da un po’ di tempo, oramai, i Giudici di Piazza Cavour sono stati investiti dell’oneroso (ed onorevole) compito di ridimensionare i deliri di onnipotenza dei vari enti di riscossione, primo fra tutti il più detestato della Penisola.
Ebbene, il graduale inquadramento dei requisiti della cartella esattoriale, sinora avvenuto mediante altrettanti “castighi” inferti dalla Corte di cassazione, pare non essere ancora giunto al termine.
Dopo avere, da poco tempo, dichiarato la nullità delle cartelle esattoriali (semplicemente) spedite per posta direttamente dall’ente, con la recentissima sentenza 21.3.2012, n. 4516, la sezione tributaria della Suprema Corte ha dichiarato altresì la nullità della cartella esattoriale in cui non sia stato indicato il procedimento di computo degli interessi e delle singole aliquote su base annuale.
Nel giudizio incardinato dinnanzi alla Corte di legittimità, l’Agenzia delle Entrate ricorreva contro la parte di pronuncia della Commissione Tributaria Regionale veneta (che aveva anticipato il suddetto principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione) eccependo che la cartella esattoriale non necessitava di alcuna specificazione, essendo stata notificata in seguito al passaggio in giudicato di una sentenza emessa a carico del contribuente (e dunque in seguito ad un accertamento divenuto definitivo di cui il contribuente era informato).
Il Giudice di legittimità, tuttavia, ha dichiarato inammissibile tale motivo di ricorso sulla scorta della considerazione che, nel caso di specie, non si discuteva sulla spettanza degli interessi, bensì sulle modalità di calcolo degli stessi. Infatti, così come anche affermato dalla CTR veneta, nonostante l’indicazione “degli atti presupposti” potesse considerarsi sufficiente, poiché intellegibile da parte del contribuente, lo stesso non avrebbe potuto dirsi degli interessi, riportati solo nel loro ammontare complessivo, senza alcuna indicazione delle aliquote prese a base delle varie annualità.
Nel caso di specie, inoltre, essendo la cartella esattoriale riferita ad un accertamento relativo all’anno di imposta 1983, i Giudici hanno giustamente osservato che le complesse indagini da effettuare per ricostruire l’operato dell’ufficio non avrebbero potuto gravare sul contribuente, perché ciò si sarebbe inevitabilmente tradotto in una violazione del diritto di difesa.
Tutti i principi di diritto sinora espressi dalla Corte di cassazione sembrerebbero, anche ad orecchi poco avvezzi al diritto, abbastanza scontati… ed effettivamente lo sono. Ciò che rende indispensabili tali interventi correttivi è il percorso privilegiato creato dal legislatore per la riscossione dei crediti dello Stato; percorso che, deviando da quello ordinario, che tutto il “popolo sovrano” deve osservare per veder soddisfatto un credito, è “costellato” da asperità giuridiche.
Non solo.
Lo Stato, oltre a non essere tenuto a rispettare le ordinarie procedure esecutive che impone ai suoi cittadini quando devono recuperare un credito da terzi, non è alle stesse integralmente soggetto nemmeno “passivamente”, ossia quando è debitore di somme nei confronti dei privati. E’ noto, infatti, che il recupero crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione si traduce sovente, per avvocati e creditori, in un vero e proprio percorso di “Giochi Senza Frontiere”.
E così, non solo lo Stato sarà privilegiato, nel recupero crediti, rispetto ai semplici creditori privati (che non hanno, schierato dalla loro parte, il superiore ed invincibile “Interesse Pubblicistico”), ma sarà anche privilegiato rispetto ai debitori privati, dei quali non condividerà le medesime sorti.
Nella situazione descritta, si è giunti al paradosso per cui vantare un credito nei confronti dello Stato è diventata la peggiore sfortuna per il privato, il quale vede distintamente il proprio debitore (contrariamente a quanto accade solitamente nelle procedure esecutive, dove l’esecutato più accorto si “dà alla macchia”) ma non riesce a raggiungerlo con l’esecuzione.
Questo il panorama in cui opera una Pubblica Amministrazione che con una mano impone (ed esegue) il pagamento immediato dei propri crediti derivanti da una sempre crescente pressione fiscale, e che, con l’altra mano, blocca il pagamento dei propri debiti nei confronti degli imprenditori anche sino a 1.500 giorni, salvo poi, ovviamente, incaricare gli enti di riscuotere i tributi, anche e soprattutto da questi stessi imprenditori, sotto il sacro vessillo della lotta all’evasione.
Tutto questo mentre il direttore dell’Agenzia delle Entrate del mio tranquillo e moralmente irreprensibile paese natale viene accompagnato nelle patrie galere per aver “chiuso un occhio” sulla riscossione di alcuni tributi, a semplice richiesta (ovviamente in busta chiusa) di alcuni influenti contribuenti. Strana “bestia”… l’equità!
M.M.