Le elezioni di Genova e la difficoltà della sinistra (e italiana) di “fare sistema”.
Ieri ho letto l’interessante reportage di Cesare Martinetti, inviato a Parigi per La Stampa. Racconta dei giovani del Pd che aiutano i colleghi francesi nella campagna elettorale a due giorni dal voto. Sono circa 60, volontari e autofinanziati, giovani che vengono da ogni parte d’Italia e che evidentemente credono nella politica.
E che però si stupiscono di quello che vedono e sentono a Parigi. Dopo anni di italiche discussioni politiche intorno alla questione morale, alla giustizia, al finanziamento ai partiti, alle competizioni di burlesque e alle lauree albanesi, si stupiscono che in Francia si parli di politica e di programmi (quel bizzare!). Programmi che vengono comunicati, argomentati studiati e confrontati (oh là là!, ‘sti francesi).
Lo stupore poi è intensificato dalla qualità dei messaggi. Mentre in Italia il Pd sostiene Monti, in Francia François Hollande duella con un nervosetto Sarkò su poveri e ricchi, giustizia sociale, aiuti ai giovani, investimento nella scuola. Messaggi di sinistra-sinistra.
Per non parlare di quel vento di vittoria (auspicata). E di unità. Sì, perché in Francia pare che i candidati si mordano alla giugolare durante la mattanza delle primarie, ma poi convergano tutti insieme a sostenere chi vince.
Il rapporto tra francesi del Ps e italiani del Pd sembra essere nato dopo il disastro Jospin, dieci anni fa giusti. Con i francesi in viaggio di studio da noi perché attratti dal modello delle primarie all’italiana. Il modello è piaciuto ed è stato importato. Evidentemente anche declinato, in meglio.
Mentre in Italia a due giorni dal voto delle amministrative, che succede? Per esempio a Genova: Andrea Doria, l’esponente di Sel potrebbe trionfare al primo turno e, come fu per Pisapia, il Pd rischia un’altra guerra intestina.
Sì, alcune analogie con Milano, e anche Napoli e Cagliari, di un anno fa ci sono. Candidati Pd battuti alle primarie e campagne dei futuri sindaci come sperimentazioni di laboratorio dal futuro incerto. Le analogie però finiscono qui, perché a Genova è anche molto peggio.
Il Pd è ancor più diviso e in difficoltà. Il sindaco uscente (al primo mandato) del Pd Marta Vincenzi ha dente avvelenato e piccone affilato. Il sentimento di sfiducia verso la politica e di astio verso i partiti è molto di più di un anno fa. Sentimenti che vanno ad inspessire la cappa di rassegnazione. Mentre la città va in declino.
Genova è una città disillusa, consapevole che le questioni economiche e sociali non sono interamente risolvibili nelle stanze di Palazzo Tursi. Consapevole che si dovrebbe fare sistema, o faire territoire, per dirla alla francese, appunto. Ma la difficoltà italica di far dialogare istituzioni, imprese e gli altri attori della società civile e della cultura, qui è ancora più conclamata e storicamente cronicizzata.
E quindi le campagne dei candidati e la partecipazione degli elettori sono in tono, gonfaloni dei partiti quasi nascosti ed entusiasmo che va dal sobrio al non pervenuto.
Alle primarie del Pd a Genova è andato a votare poco più della metà di quanti andarono ai seggi cinque anni fa. Il popolo arancione di Milano, solo un anno fa, luccicava di tutt’altri entusiasmo e aspettative.
E forse anche in memoria di questo, giovedì sera in Piazza Matteotti, al Pisapia applauditissimo dalla platea seguiva un Marco Doria accettato come il meglio possibile, ma senza fremiti.
Come Pisapia, probabilmente anche Mario Doria diventerà sindaco contro ogni previsione (anche dei partiti), ma rimane un candidato differente non solo da Pisapia, ma anche da Zedda e De Magistris. Lontano non solo dal Pd, ma anche dallo stile della politica tutta.
Marco Doria, forse consapevole che la comunicazione non è il suo punto di forza, non ha coniato slogan evocativi e sognanti, non ha mai promesso rivoluzioni, si limita a promettere serietà che nessuno gli nega e della quale nessuno ne sottovaluta il valore. E che però forse rimane troppo poco, anche per una piazza blasé come Genova.
Però si parla di vittoria. Potrebbe essere già al primo turno. Perché gli altri sono messi anche peggio.
Lotte intestine e mal di pancia variegati non risparmiano gli altri partiti e coalizioni. Il non essere capaci di stare insieme appassionatamente non è infatti un problema solo a sinistra.
Pierluigi Vinai è il candidato del Pdl, non certo di prima scelta, ma sesta, dopo che gli altri possibili competitori hanno ringraziato e glissato. Come se non bastasse, Vinai saprà solo lunedì se essere sostenuto da Claudio Scajola sia un vantaggio o una iattura.
Enrico Musso, del Terzo polo, invece, è in cerca di rivincita dopo che fu già battuto cinque anni fa, e l’impressione è che un altro candidato proprio non si sia trovato.
La Lega, si sa, corre da sola o quasi, del resto in Liguria non ha mai attecchito.
Che sia al primo turno o al ballottaggio, di sicuro la vittoria di Marco Doria a Genova accelererà la discussione sull’identità del Pd e sulla strategia delle alleanze. Perché anche a Genova, il Pd rischia di scendere ben al di sotto del 43% delle ultime politiche, e di dover festeggiare un ennesima vittoria farlocca del “partito infrastruttura”, per dirla alla Bersani, che porta vantaggi agli alleati ma attira sbertucciamenti da tutti.
Quindi, da soli non si va da nessuna parte. Ma come selezionare (a prescindere da primarie e leggi elettorali vecchie o nuove) le persone con cui ci si accompagna?
L’alleanza precaria e del «più uno» non porta con sé un visione del futuro. Per questi motivi la discussione identitaria del Pd è già in atto – se volete speluccarne toni e contenuti, consiglio il blog di Giuseppe Civati.
Questa difficoltà a superare differenze, ideologie, inciucismi, individualismi, parrocchialismi e tribalismi, non è certo un male esclusivo del Pd. Sel, in questo senso, appare essere un “Pd in miniatura, diviso tra Fabbriche e vecchi apparati” (cit. Civati).
Ma non è nemmeno una difficoltà che appartiene esclusivamente alla sinistra. Da altre parti stanno pure peggio.
E’ una difficoltà che del resto non appartiene nemmeno solamente alla politica. È una difficoltà/incapacità del paese Italia e delle sue genti. Che però si aspettano, giustamente, che i partiti cambino, per non trovarsi trascinati nel baratro.
Domande: ma se i partiti sono fatti di genti, e le genti non sono più affidabili dei partiti (Bersani ama ripetere che in ognuno c’è un po’ di male!) è possibile che i partiti possano cambiare? Per esempio, correggendo la svolta soggettivistica per tornare a occuparsi dell’apparentemente desueto e demodé e invece certamente attualissimo concetto di bene comune?
Insomma, questo cambiamento è responsabilità dell’uovo dei partiti o della gallina degli elettori?
Un bel rompicapo. Ma forse poco importa, basta che ci si arrivi.