Appena fatto il loro ingresso nella nuova casa italiana, i nostri bambini hanno cominciato a studiarla con la precisione di un medico legale di Ncis. Sofia, in particolare, era capace di passare intere ore a perlustrare gli armadietti del bagno, i comodini, ogni mobile avesse un’anta o un cassetto. Al termine dell’ispezione veniva da me o dal padre e impugnando l’oggetto di turno – un pettinino, un astuccio con il necessaire per le unghie, un rossetto, un tubetto di crema – diceva: “Allora questo è mio?” Ovviamente la risposta era sempre sì. A quel punto tutta contenta ammucchiava i suoi piccoli tesori e li nascondeva sotto il cuscino, spesso non mollando la presa su quei fagotti per tutta la notte.
Vladi e Anna, immagino per via dell’età, esercitavano invece le loro volontà di possesso durante i pasti, tanto che a un certo punto ho abolito il piatto da portata collettivo per proporre scodelle già porzionate, almeno così non si stremavano a dire “è mio, è mio” finché non vedevano la fine. Piano piano però, a forza di ripetere come un mantra frasi del tipo “non è solo tuo, è di tutti”, oppure “ognuno pensi al piatto proprio senza guardare sempre quello degli altri” si sono cominciati a vedere i primi risultati. E adesso possiamo portare a tavola il cestino del pane senza che venga assaltato come la nota diligenza.
Anche Sofia, una volta rassicurata sul fatto che le cose restavano sue anche se le lasciava al loro posto, ha cominciato a mollare la presa sulle scatolette e le bustine che popolavano i dintorni del suo letto, e oggi può addirittura capitare che perda o dimentichi qualcosa (raramente, per la verità).
All’inizio pensavo che questo genere di atteggiamenti fosse da riferire alla vita agra del bambino istituzionalizzato, che non ha mai nulla di proprio e che è costretto a dividere con altri quello che c’è, anche quando non è molto. Mi sbagliavo, è piuttosto il modo che i bambini hanno per capire se si possono o meno fidare di te, di questi adulti piovuti dal cielo che vai a sapere che cosa hanno in testa. L’ho capito una sera, mentre riguardavo le fotografie dei nostri primi incontri dopo una giornata in cui la frase “è mio” mi aveva completamente intronato.
Mi sono ricordata dei primi giocattoli che abbiamo regalato ai nostri figli durante le visite nell’istituto. Mentre Anna e Vladi li usavano ma non sembravano sviluppare un particolare attaccamento a qualcuno di essi – neanche ai pupazzetti di peluche – Sofia si era specializzata nella raccolta. Ogni volta che arrivavamo perlustrava con cura il nostro bagaglio, accettava con una certa ansia la divisione dei pani e dei pesci, e poi, quando dovevamo andare via, si preoccupava di metterli tutti in un posto. Ci teneva a spiegare che li avrebbe conservati lei – sotto il suo letto, me lo fece anche vedere – e che quando Anna e Vladi li volevano ci avrebbe pensato lei a darglieli. Al momento di andare via tutti insieme, a un certo punto le chiesi: “E i giochi, li abbiamo dimenticati?” “No – rispose seria – lasciamoli ai bambini che restano qui, noi ne avremo altri..”. All’epoca quella frase mi fece molta tenerezza, oggi sintetizza ai miei occhi l’incredibile facoltà dei bambini di arrivare all’essenziale. E mi chiedo chi debba imparare da chi.
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