Julie Orringer, Il ponte invisibile, Garzanti, 2011
Un romanzo epico, come i grandi romanzi dell'Ottocento, ma anche moderno, come moderni ed epici sono Middlesex di Eugenides e Il petalo cremi...
Julie Orringer, Il ponte invisibile, Garzanti, 2011
Un romanzo epico, come i grandi romanzi dell’Ottocento, ma anche moderno, come moderni ed epici sono Middlesex di Eugenides e Il petalo cremisi e il bianco di Faber. Il tema centrale è la sorte degli ebrei ungheresi durante il nazismo. Un capitolo che ancora non conoscevo nella terribile storia dell’Olocausto. Un capitolo diverso, pur nella sua tragica realtà, perchè l’Ungheria di Horthy cercò di assecondare i dettami antisemiti del Terzo Reich senza però arrivare, se non all’ultimo , alle deportazioni di massa. Così, anche se gli ebrei ungheresi furono progressivamente deprivati dei loro diritti, ridotti in miseria e costretti ad arruolarsi nei lavori forzati anzichè nell’esercito regolare, non conobbero l’incubo della Soluzione Finale fino al 1944, quando i tedeschi occuparono il loro paese. Furono dunque per certi versi più “fortunati” ma anche più logorati dall’illusione di poter tornare un giorno alla vita che avevano conosciuto prima della guerra. In realtà solo un terzo riuscì a sopravvivere alla Shoah e fra questi c’erano i nonni dell’autrice.
Julie Orringer, ispirandosi in parte alle vicende realmente vissute dal nonno, sceglie di sottolineare la dicotomia fra gli anni della speranza e quelli della cruda realtà, con una struttura narrativa divisa in due metà molto diverse tra loro, corrispondenti alle due “esistenze” del protagonista Andras Levi. La prima parte del romanzo è essenzialmente una storia d’amore romantica e, in quanto tale ancora distante dagli echi dell’Olocausto. Andras, ebreo, figlio di un falegname nel villaggio di Konyàr, lascia l’Ungheria nel 1937 per intraprendere a Parigi gli studi alla prestigiosa Ecole Speciale d’Architecture. Qui vive in ristrettezze ma è fortunato. È uno studente promettente e benvoluto. Quando la sua borsa di studio viene interrotta dall’inasprimento dei provvedimenti antisemiti in Ungheria, trova un lavoro e degli amici generosi che gli consentono di proseguire l’università. Si innamora di un’altra espatriata ungherese, Klara, un’insegnante di danza di nove anni più anziana di lui e inizia con lei un rapporto passsionale e intenso, ancorchè complicato dal mistero che avvolge il passato della ballerina.
Queste prime 300 pagine sono forse un po’ troppe e avrebbero beneficiato di qualche sforbiciata. Ma la lettura scorre veloce, anche se, stante il periodo storico, ci si chiede fino a quando tutta questa felicità potrà durare. Orringer , oltre che al linguaggio, è attenta a modellare ambienti e personaggi (i compagni ebrei di Andras, gli insegnanti -incluso Le Corbusier-, la famiglia di Klara) e soprattutto a ricostruire la Parigi in quegli anni, i locali frequentati dagli studenti, le atmosfere del teatro Sarah-Bernhardt, le lezioni dell’Ecole Speciale, le particolarità architettoniche degli antichi palazzi parigini viste con gli occhi di un ventenne entusiasta, innamorato e pieno di speranza.
Nel 1940 l’Ungheria, alleata di Hitler, viene trascinata in guerra sul fronte orientale. Andras è costretto a rientrare a Budapest per arruolarsi nei battaglioni ausiliari, i “Munkaszolgalat! dove gli ebrei sono destinati ai lavori forzati. Nel raccontare questa seconda esistenza di Andras, Orringer scrive pagine di intensa drammaticità che rappresentano una cesura totale con quelle precedenti. Andras e i suoi commilitoni vengono progressivamente spogliati della propria dignità di esseri umani. Resta solo l’autoironia e quel certo umorismo nero con cui alleggeriscono una quotidianità sempre più faticosa e drammatica. Andras e il suo amico Mendel a più riprese confezionano giornaletti clandestini che con sprezzo del pericolo fanno circolare fra i reparti: “L’Oca delle nevi”,”La mosca mordace”, ” Il binario storto”:
“Il primo numero della “Mosca Mordace” conteneva un dizionario che definiva termini quali adunata mattutina (popolare gioco di società che alterna momenti di noia, ginnastica ritmica e umiliazione)…e sonno (fenomeno naturale raro e poco noto)….C’erano le inserzioni economiche (Cercasi arsenico.Pagamento a rate)”
Alcune copie di questi giornali fatti in casa sono conservati presso gli Archivi Ebraici Nazionali a Budapest dove Orringer li scopre durante le sue meticolose ricerche. ” E’ tipico del carattere degli ungheresi – afferma Orringer in un’intervista – che anche in circostanze cosi tragiche cercassero un sostegno sul piano intellettuale ed emotivo descrivendo le loro condizioni disastrose con senso dell’umorismo.”
Julie Orringer, americana, classe 1974, è fra gli scrittori che per ragioni anagrafiche non possono ricordare l’Olocausto, ma solo immaginarlo. Non per questo la storia di Andras è meno vera dei racconti dei sopravvissuti alla Shoah. Orringer attinge a fonti di prima mano, i suoi nonni , oltre che a una grande messe di fonti documentali consultate in otto anni di lavoro. Cosa spinge questi discendenti a ripercorrere le orme di tanto dolore? A costruire un ponte invisibile fra noi e coloro che, scampati all’Olocausto, oggi non sono più qui per raccontarlo? Senza dubbio l’amore per la famiglia, la volontà di conservare la memoria, l’omaggio alla forza di volontà e alla determinazione. E poi c’è anche lo stupore di fronte alle circostanze fortuite, le piccole coincidenze, la casualità banale che consentirono ad alcuni di vivere mentre tutti morivano. Una fatalità che alcune parole della bellissima poesia “Ogni caso” del premio Nobel Wislava Szymborska, in coda al romanzo, esprimono con efficacia struggente:
…Ti sei salvato perchè eri il primo
Ti sei salvato perchè eri l’ultimo.
Perchè da solo.Perchè la gente.
Perchè a sinistra.Perchè a destra.
Perchè la pioggia.Perchè un’ombra. Perchè splendeva il sole…
…Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancor socchiuso?