Questa è la prima di una serie di interviste agli Innovatori d’Italia. Paese difficile, gente straordinaria.
Marco Controzzi, trent’anni, è uno dei due soci fondatori di Prensilia, startup di Pisa che si occupa della ideazione, progettazione e realizzazione di mani robotiche. L’altro socio è Christian Cipriani, trentadue anni, che dopo aver vinto una borsa di studio Fulbright è volato negli Stati Uniti, a Denver, all’Università del Colorado.
Prensilia è uno spin-off del laboratorio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
[ link video -> http://youtu.be/T8n9E_QeUeU ]
Marco, di cosa si occupa Prensilia?
Ci occupiamo essenzialmente di creare dei prototipi di mani artificiali e per adesso le stiamo vendendo ai laboratori di ricerca di varie università in giro per il mondo. Anche se abbiamo dei piani per sviluppare delle protesi vere e renderle disponibili a tutti, in un futuro non troppo lontano.
Tu che formazione hai?
Io mi sono laureato in ingegneria meccanica all’università di Pisa e sono alla conclusione del dottorato di ricerca presso la Scuola Sant’Anna.
E Christian, il tuo socio?
Christian si è Laureato in ingegneria elettronica a Pisa e ha svolto il dottorato di ricerca presso l’IMT di Lucca.
Quali sono i vostri ruoli in azienda?
Io mi occupo della parte meccanica mentre lui si occupa dell’elettronica della mano.
Chi ti ha trasmesso questa passione per la robotica?
È nata un po’ per caso, quando ho cominciato a lavorare al laboratorio della Sant’Anna mentre ancora facevo la Specialistica. Diciamo che mio padre aveva iniziato a studiare ingegneria, ma poi ha abbandonato per motivi familiari. Mio nonno invece era un meccanico maresciallo dell’Aeronautica Militare e tutte le cose che si rompevano le aggiustava (ride). E poi ho sempre avuto il pallino di smontare le cose, anche se poi non riuscivo a rimontarle (ride) o magari avanzava qualche pezzo.
Mi racconti com’è nata la vostra startup?
Prensilia è nata come spin-off della Scuola Sant’Anna. Nel 2008 lavoravo nel laboratorio a un progetto chiamato SmartHand, della Comunità Europea, per la realizzazione di mani robotiche. E abbiamo pensato: perché non facciamo una protesi più vera e meno esperimento di ricerca?
Com’è andata?
All’inizio bene. Il prototipo frutto del progetto SmartHand ha vinto il premio Antonio D’Auria della società italiana di robotica e automazione. A quel punto abbiamo fatto un business plan, iniziato a cercare dei finanziamenti e siamo stati accettati nell’incubatore di Peccioli (Pisa). Nel 2009 abbiamo vinto il premio Vespucci per l’innovazione in Toscana e siamo stati selezionati per la finale del Premio Nazionale Innovazione che nel 2009 si svolgeva a Perugia, nel teatro principale della città. Un premio importante perché ti permette di presentare la tua idea, il cosiddetto pitch, a degli investitori veri.
Quindi avete trovato lì i vostri finanziatori?
Purtroppo no. Solo i primi cinque avevano la possibilità di fare il loro pitch agli investitori. Tra l’altro la sera della premiazione l’atmosfera era incredibile: c’erano giornali, radio, la Rai una cosa grossissima! Le prime file del teatro, poi, erano riservate agli investitori. Ce n’era un numero impressionante!
Emozionati?
Certo, eravamo elettrizzati! Pronti per dare il meglio, ma solamente i primi cinque avevano l’opportunità di presentare il loro progetto. C’era una pre-selezione.
E cos’è successo?
È successo che non siamo rientrati nei primi cinque, ma mi son reso conto di come mai non ci siamo rientrati: tutti avevano dei numeri di business dieci, cento volte le possibilità di rientro economico del nostro progetto. Gli amputati per fortuna non sono così tanti, per cui il nostro era un progetto poco interessante per loro dal punto di vista dei possibili guadagni.
A quel punto che avete fatto?
A quel punto ci siamo resi conto che la nostra idea non era così remunerativa. Abbiamo detto fermiamoci un attimo, continuiamo con il business delle mani robotiche (non molto redditizio, per dire la verità) e cerchiamo di auto finanziare la nostra idea cercando di ideare un progetto industriale più mirato.
E com’è andata?
In tre anni abbiamo reinvestito il 90% dei guadagni e ora abbiamo due brevetti: uno sul sistema di controllo che serve a migliorare la precisione dei movimenti della mano. E in più un brevetto su una nuova protesi, un prototipo, che crediamo ci darà delle soddisfazioni.
Avete cercato nuovi finanziatori?
Si. Abbiamo presentato il progetto ad un’azienda ortopedica italiana per un progetto industriale. Loro si dovevano occupare della distribuzione e della promozione. E in cambio avrebbero avuto l’esclusiva della vendita del prodotto. Ma complice anche la crisi ci hanno detto di no.
E ora?
Ora siamo in trattativa con investitori esteri che si occupano solo di arti inferiori e gli abbiamo proposto di aprire un nuovo settore aziendale, legato agli arti superiori, grazie alla nostra tecnologia. Di recente, poi, si sono inseriti altri due investitori italiani che potrebbero essere interessati.
Si possono sapere i nomi?
No, l’anonimato deve essere il più assoluto (ride)! Però siamo a buon punto. L’idea è quella di vendere le royalties sul prodotto in cambio del finanziamento.
A cosa vi servono di preciso i soldi del finanziamento?
Noi abbiamo bisogno di investimenti per coprire i costi di ingegnerizzazione che è l’ultimo vero tassello prima di un prodotto vero.
Cioè?
Ora abbiamo finalmente un prototipo pensato per essere una protesi di uso quotidiano e non per essere usata solamente nei laboratori di ricerca. Per cui dobbiamo studiare i processi di industrializzazione per una produzione in serie. Che inevitabilmente sono differenti da quelli del prototipo: stampaggi invece di macchine utensili, materiali diversi, ecc.
Di quanti componenti è composta una mano?
Una mano robotica, di quelle che vendiamo ai centri di ricerca, è fatta di circa 150 parti.
Di che materiale è fatta?
La mano è fatta in ERGAL, una lega aeronautica a base di alluminio. Ha una resistenza che è tre volte quella dell’acciaio, ma molto più leggera. I movimenti sono gestiti da microattuatori elettrici e può essere collegata ad un computer o al braccio di una persona con degli elettrodi. Come quelli che ti mettono sul torace quando fai l’elettrocardiogramma.
Quanto costa una vostra mano?
Quelle che facciamo noi per i laboratori di ricerca costano circa 25.000 euro. Ma siamo nella fascia bassa di mercato. In genere vengono vendute attorno ai 100.000 euro.
Avete mai pensato di mollare tutto?
No, a mollare tutto non c’abbiamo mai pensato. Casomai dopo il premio innovazione, a Perugia, abbiamo creduto, ecco, non che l’avevamo sparata grossa, perché al di là di un ritorno economico, per noi l’importante è anche il senso del prodotto, il fatto di costruire un arto artificiale che venga effettivamente usato dalle persone e risolva i loro problemi. Però che forse dovevamo riconsiderare le nostre aspettative.
Quanto lavorate?
Tanto. Il lavoro della startup è un extra alle nostre attività di ricerca presso la Scuola Superiore Sant’Anna, quindi ti trovi a dover sacrificare il tempo libero. Sabati e domeniche compresi. Poi, adesso che mi è nato un figlio da dieci giorni, dovrò darmi una regolata, altrimenti mia moglie (ride)…!
In Italia se apri una startup sei lasciato quasi a te stesso. Ci sono tante iniziative, ma non sono incisive. E spesso chi sa muoversi in quei meccanismi di innovativo non ha proprio nulla. Io sono dell’idea che le cose devono essere poche, ma fatte bene. Anche qui a Pisa ci sono quattro incubatori. Ora, dico io, che senso ha avere così tanti incubatori?
Sono convinto che in ogni regione italiana ci debba essere un solo incubatore, molto grande. E dovrebbe essere chi gestisce l’incubatore ad andare a cercare idee nuove nei centri di ricerca sparsi per tutto il territorio nazionale. Spesso nei laboratori ci sono persone con idee bellissime, ma quelle stesse persone, magari, non hanno gli strumenti per commercializzarle. La società deve capire che investire nell’innovazione paga sempre, soprattutto nel lungo periodo.
Cosa ti piace nel fatto di avere una tua azienda?
A me piace l’idea di avere una mia società. Soprattutto per la possibilità di lavorare con persone che stimo, lavorare con un team che ho scelto. Ci sono molti ragazzi in gamba che vorrei prendere in azienda. Lavorare con persone capaci è importante. Per esempio se mi dicessero “ti compriamo l’azienda e ti diamo un pacco di soldi, ma devi rinunciare al tuo socio” io direi di no. Se me lo levate, poi, con chi lavoro dopo (ride)?!
È diverso il sistema delle startup negli Stati Uniti?
È diverso nel senso che là i venture capital finanziano un numero notevole di startup. Magari quasi tutte falliscono, ma una va bene e ripaga gli investimenti fatti. È la cultura in quel caso che è differente: non si aspettano, come da noi, di investire uno e guadagnare mille subito! E poi ti seguono molto, c’è un tessuto all’interno del quale la startup nasce e si sviluppa.
Hai mai pensato di andare via dall’Italia?
No. Forse sarebbe più semplice far crescere l’azienda, ma per me è troppo importante vivere circondato dai miei amici e familiari. Sono molto legato al mio territorio. Poi Pisa è una realtà scientifica di eccellenza: se fossi nato in un altro posto, forse la penserei diversamente. Però, ovviamente, non si può mai dire.
Com’è il livello dell’università italiana? Hai visitato molte realtà all’estero, ti sarai fatto un’idea.
Il livello dell’università italiana è eccellente. Non abbiamo da invidiare niente a nessuno sotto il profilo accademico.
Niente da migliorare?
Se c’è una cosa che manca è il collegamento vero con l’industria. La colpa è principalmente dello Stato che dovrebbe promuovere e finanziare progetti congiunti. Adesso il mondo accademico fa solo lavoro di ricerca e l’industria pensa esclusivamente al guadagno. Ed è in questo, nel farli incontrare, che funziona bene il modello americano.
E le aziende come si relazionano all’Università?
Male. In Italia ci sono soprattutto aziende familiari che sono un po’ arroganti, avendo cominciato a lavorare molti anni fa e poi essendosi arricchite seguendo i propri metodi. Non si confrontano con le innovazioni che gli potresti offrire. E poi ora la tendenza è dislocare la produzione in paesi dove la manodopera costa meno. Praticamente, non ci sono più aziende che investono.
Come immagini quello che stai facendo, tra qualche anno.
Oggi noi tutti possediamo oggetti di design. Come il computer: è arrivato Steve Jobs e ha detto che devono essere belli e ora tutti li usano. E così anche la protesi. Dovrebbe essere un oggetto bello e le persone non si dovrebbero vergognare ad indossarla: pensa che il 60% dei mutilati rifiuta la protesi meccanica.
La protesi deve essere un bell’oggetto che funziona bene. Infatti noi ne stiamo ideando una con la consistenza e l’aspetto di una mano vera.