Metto le mani avanti. Tra gli argomenti che ho proposto per Batblog, c’è il teatro.
Il teatro racconta con efficacia, semplicità, commozione e divertimento il cambiamento della nostra società, nelle sue pieghe più intime. “Un tema che tira”direte voi.
Proviamo. Vorrei parlarvi del “mio” teatro e mi piacerebbe mi raccontaste, se lo avete trovato, del vostro.
Un teatro che io amo definire necessario. Come antidoto, cura, memoria, confronto, divertimento. Dove trovo spunti di riflessione, ma anche emozioni che altrove non trovo, se non nei libri.
Quello che a dispetto di tagli e finanziamenti alla Cultura, cerca di resistere e accogliere il suo pubblico. Fa rete con la società civile e non disdegna piazze e circoli.
Un teatro di frontiera che lavora per le strade, nei quartieri, nei carceri e nelle scuole più disagiate d’Italia come in quelle più fortunate. Un teatro che piace, ma spesso lo ignoriamo, a quei nativi digitali che hanno bisogno di mettersi alla prova, conoscere il loro corpo, le loro emozioni e condividerle, senza schermi e chat, basta dargliene solo l’opportunità.
Parlo di quello stesso teatro che non appare nei cartelloni dei grandi teatri stabili finanziati con il Fondo Unico dello Spettacolo, ma che si autofinanzia, spesso solo attraverso il pubblico.
Un teatro che non ha poltrone di consigli di amministrazione da spartire ma che vuole ancora essere un “teatro d’arte per tutti”, popolare e accessibile.
Un teatro che non è triste, paludato, impostato ma che va incontro al suo pubblico, anche raccontando cose “scomode”, provocanti, irriverenti. Ma che non perde di vista chi è in platea, ha pagato un biglietto ed è uscito di casa, anziché stare davanti alla TV o al PC.
Un teatro che si inventa reti e festival per sopravvivere e farci sorridere.
Ci porterò mio figlio ed è uno dei momenti più belli che riusciamo a condividere insieme, lontani dalla fretta e dalle corse quotidiane.
Se vi va ne possiamo parlare. Alla faccia del FUS e delle accise sulla benzina.